Quando si chiuse la porta di casa alle spalle, il ragazzo
aveva una gamba dei pantaloni strappata e le mani sporche di sangue.
Suo padre fu svegliato di soprassalto dal rumore di un
oggetto pesante che cadeva sul pavimento. La notte era una delle tante del 1978
e lui aveva cinquantaquattro anni. Suo figlio venti.
Scese dal letto, la vista annebbiata e la mente che rifiutava
di accettare l’idea che il ragazzo avesse potuto commettere un atto violento, poiché
sapeva che ne sarebbe stato capace. Come ne era stato capace lui alla sua età.
Lo raggiunse in bagno, cercava di lavarsi via il sangue
dalle mani.
– Che hai fatto? – gli domandò come in sogno.
– Ma niente, papà... – gli rispose lui – torna a dormire, è
tutto a posto.
Voleva dire che c’era da preoccuparsi.
– Sei ferito? – gli chiese, e poi, senza attendere risposta:
– è tuo quel sangue? No? Di
chi è allora?
– Sto bene, papà... – fece lui con aria di sufficienza, come
se la cosa non lo riguardasse. – Non te preoccupa’.
– Ma il sangue... – insistette il padre, assumendo un tono
disperato.
Intanto, il lavandino andava colorandosi sempre più di
rosso, mentre le sue mani tornavano bianche.
– Lo vedi che non me so’ fatto niente? – gli disse poi
mostrando i palmi indenni.
– Ma che hai combinato? – ripeté ancora una volta, se
possibile con un tono ancora più disperato.
– Ho detto che non te devi preoccupa’... – ribadì lui. – Se
semo menati... tutto qui. Ora torna a letto che è mejo.
– Io non mi muovo di qui se non mi racconti tutto. Vi siete
menati...? Tu e chi? Con chi eri, il solito gruppetto di esaltati?
– Sì, eravamo noi, i soliti...
– E con chi avete fatto a botte, dimmi?
– Papà, al posto mio avresti fatto la stessa cosa, – gli
disse il figlio chiudendo i rubinetti e poi ripulendoli dalle macchie di sangue
con la carta igienica.
– Ma quale cosa? – gli domandò sempre più esasperato.
– Che ce parlavi, tu, coi fascisti nel ‘44?
– Ma che c’entra il ‘44, ora. Quello era tempo di guerra, adesso
siamo in pace, – cercò di contraddirlo suo padre.
I fasci, s’era scontrato coi fasci. In quell’istante ne fu
sicuro. Era successo altre volte, ma quella era la prima che suo figlio tornava
a casa con le mani sporche di sangue. Ce n’era ancora un rivolo nel lavandino,
un riflesso bluastro che pareva una vena lunga e tortuosa.
– Ora verranno a cercarti... – si preoccupò il padre.
– Sta’ tranquillo, papà, non me cerca nessuno.
– No, ti sbagli. Verranno... i fasci, la polizia... Ti
faranno la pelle, ti arresteranno. Devi nasconderti. Dio mio, ma che cosa hai
fatto?
– Quei due stavano attaccando i loro manifesti, proprio
nella via dove la sera ci raduniamo col gruppo. Volevano provocarci, è chiaro.
– E non bastava dir loro di andarsene? Non potevate far
capire a quei ragazzi che quella zona è vostra e non dovrebbero metterci piede?
– protestò il padre, già sapendo cosa gli sarebbe toccato di ascoltare dopo.
– Quelli hanno la capoccia dura... – disse allora suo figlio,
con un sorrisetto da criminale. – Le cose gliele devi mettere bene in testa...
– e fece il gesto di prendere qualcuno a sprangate.
A quel punto gli fu chiaro che era accaduto qualcosa di
terribile, senza bisogno che lui aggiungesse nient’altro.
– Tu mi farai morire d’infarto, – disse il padre guardando
il ragazzo dritto negli occhi.
– Ma non dicevi che della morte non te ne fregava niente? –
gli rispose il figlio. – Non c’avevi paura, allora, all’età mia...
– So’ passati tanti anni... – fece il padre abbassando il
tono della voce.
– Quando te ne sei andato di casa e poi t’hanno visto in via
Ostiense, con addosso la giacca de nonno e un fucile in mano.
Il padre abbassò lo sguardo, non sapeva più cosa dire.
Quella storia era vera e gliel’aveva raccontata lui, a suo figlio, che era
ancora un ragazzino. Solo che ora era cresciuto e aveva il suo stesso
carattere, la sua stessa rabbia di allora, i suoi stessi occhi affamati di
giustizia. Lo stesso coraggio o la stessa incoscienza, chissà?
– Papà, – disse allora il figlio lasciando da parte la calma
che finora aveva finto di mantenere – stiamo solo finendo quello che avevate
cominciato voi. Avete lasciato le cose a metà, perché i fascisti ce stanno
ancora e la rivoluzione non c’è mai stata.
Suo padre scosse la testa, se avesse parlato avrebbe dovuto
ammettere che la loro tanto celebrata liberazione era stata una mezza
sconfitta. Allungò una mano e diede una carezza al viso di suo figlio, così
simile al suo. Poi se ne tornò a letto.
Però di dormire non gli riusciva, perché i ricordi erano
troppi e troppo forti. Glieli aveva ridestati quel sangue nel lavandino, poco
fa, lo stesso colore del sangue che imbrattava il marciapiede di via Ostiense
trent’anni prima. Lui se lo ricordava bene perché era rimasto a lungo a
fissarlo, insieme al corpo del fascista che ormai non si muoveva più, dopo che
gli aveva sparato. Un colpo solo, in testa.
Poi però, come tutti, aveva consegnato il fucile e smesso di
sparare, e addio rivoluzione.
Forse era stata la vista del sangue a fargli posare le armi.
Forse, sperò, la vista del sangue avrebbe fatto ragionare
anche suo figlio.
* da “Allora noi vili” di Cesare Pavese, 1945
Foto: Tano D'Amico - "Morte e sangue"
Ogni riferimento a
fatti e persone reali è puramente casuale
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