giovedì 5 dicembre 2019

Lettera di presentazione a una anonima utente di Facebook




        Ciao. Ti ringrazio per avermi accettato fra i tuoi amici. Anche se viviamo a poca distanza l’uno dall’altra, credo che non ci conosciamo, neanche di vista. Se ti avessi incontrata me ne ricorderei, sicuro. 
Forse ti sarai chiesta perché ti ho inviato la richiesta di amicizia. O forse no, sarai abituata a riceverne tante. Comunque sia voglio dirtelo in tutta sincerità, perché ti ho inviato la richiesta di amicizia. L’ho fatto dopo aver visitato il tuo profilo, aver letto i tuoi post (se tu avessi manifestato idee per le quali io provo repulsione mi sarei astenuto dal farlo, credimi), aver sorriso di alcuni tuoi pensieri, essermi emozionato di altri. Ma soprattutto, vedi, poiché non ti nascondo che sono arrivato a una età in cui non ci si può più permettere di tacere quello che si prova, perché il tempo per dirlo potrebbe esaurirsi in un lampo, io ti ho inviato la richiesta di amicizia perché quella che ho visto nelle immagini che, credo a proposito, hai caricato sul tuo profilo, mi piace davvero molto. E te lo voglio dire apertamente, voglio che tu lo sappia, che ti tolga ogni dubbio, che dietro la mia richiesta c’è il tuo bel viso sorridente, o le tue gambe esposte niente affatto per caso o il tuo seno posto in primo piano mai distrattamente, nonostante tu non sia una “pin-up” (oddio, ci sarà qualcuno ancora in grado di comprendere questo termine?). 
Il tuo esplicito messaggio per immagini merita un altrettanto esplicito messaggio verbale: ti ho chiesto l’amicizia perché mi piaci.
Mi piaci, ma stai tranquilla, non ti tempesterò di messaggi, non ti metterò in imbarazzo di fronte a tutti, non ti perseguiterò, non corri alcun rischio. Non sono, in questo, diverso dagli altri, quelli che ti chiedono l’amicizia per il mio stesso motivo, ma non lo dicono. Anzi, bisognerebbe guardarsi dagli insinceri e da coloro che non hanno il coraggio di dire ciò che pensano. 
Non è da stupidi, provare interesse o attrazione per qualcuno e non dirglielo? Io so solo che di occasioni mancate ne ho collezionate fin troppe, ora ho deciso di cambiare. Ti auguro una buona serata.

lunedì 16 settembre 2019

Echi




 C’è solo un modo di essere giovani. Tutto il resto è apparenza. 


Ricordo che a quel tempo scopavamo ascoltando Echoes dei Pink Floyd. Stessa durata, 23 minuti e 31 secondi, stesso andamento, stessa progressione. Noi allora ancora non lo sapevamo, che stavamo utilizzando uno dei capolavori assoluti della musica del Novecento per i nostri intermezzi sessuali, ma forse qualcosa dovevamo intuirlo. E il sesso era una cosa molto diversa da come lo intendiamo oggi.

Quel brano occupava un’intera facciata del disco, così non dovevi fare altro che lasciar scendere la puntina all’inizio dei solchi. Alla fine il piatto si fermava da solo. E si poteva riaccendere la luce.


Tutto iniziava con un “si”, che era una nota acuta emessa da un pianoforte e modificata, ma anche il termine che portavamo sulle labbra. Sì, lo voglio. Sì, prendimi, Sì, ti voglio. E così scendevamo insieme nei labirinti di caverne coralline dove ogni cosa è verde e sommersa e non riemergevamo fino a che non sentivamo pronunciare le parole così spalanco la finestra e grido il tuo nome al cielo.

Allora sapevamo che stava per finire, ma avevamo ancora qualche secondo per un ultimo bacio, un’ultima carezza, prima di essere presi nel vortice finale del canone eternamente ascendente, la scala suonata contemporaneamente su ottave differenti. E mentre una scala diminuiva di intensità, l’altra aumentava, proprio come succedeva ai nostri rispettivi sensi. Bach l’aveva insegnato ai Pink Floyd e i Pink Floyd l’avevano trasmesso a noi, ascoltatori inconsapevoli e amanti instancabili, che ce ne servivamo a modo nostro.


Un vento sonoro faceva tremare i nostri corpi nudi, come se davvero qualcuno avesse aperto le finestre e un tranquillo uragano stesse per travolgerci. A quel tempo ci sfuggiva il significato recondito di quei suoni e di quelle parole scandite in un idioma che non era il nostro, ma non il senso. Quello lo capivamo bene. Tu e io, noi e gli altri; un pianeta, miliardi di echi. Eravamo giovani, mica stupidi. 

(foto Compagnia di danza "Echoes", Pink Floyd Suites)

domenica 15 settembre 2019

Qual è il tuo modello?




        Sembra che nessun essere umano sia capace di crescere, svilupparsi, evolversi, senza un modello. La nostra esperienza evolutiva assomiglia a un pittore che non sappia ritrarre un corpo senza averlo di fronte. Per cui il corpo che dipingerà, sia pure con tutte le variazioni e le fantasie che vorrà aggiungervi, sarà pur sempre quello del modello o della modella che avrà osservato.

Nel corso dei secoli i modelli sono variati, come è ovvio, ma è solo nel Novecento, con l’esplosione della società dello spettacolo, che vi è stato un radicale cambiamento. I mezzi di comunicazione di massa hanno invaso il pianeta, risparmiando davvero poche isole in cui la presenza umana è quasi irrilevante.
Fotografia, cinema, televisione, stampa. I nostri modelli non sono più, soltanto, nostro padre e nostra madre, i nostri parenti, i nostri vicini di casa, quelli della nostra stessa classe sociale. Sono figure lontanissime, che pure appaiono vicine viste con il potente telescopio dei mass media. La straordinaria ricchezza di un residente a Beverly Hills si può quasi toccare con mano. Pare quasi un nostro intimo amico, l’attore di Hollywood che si è sottoposto a una serie di lifting per sembrare meno vecchio. E poi, ormai i tatuaggi ce li hanno tutti, loro, quelli che il mondo osserva, perché non dovrei averne uno anche io? E non hanno iniziato loro, quelli che non hanno mai avuto problemi di soldi, quelli che la vita sanno godersela, loro, gli attori, le attrici, i cantanti, non hanno iniziato loro a rompere il tabù del vincolo del matrimonio? A mettere al mondo figli senza sposarsi, a separarsi, a divorziare, una, due, tre volte... Eccola, la libertà, facciamolo anche noi! Mia nonna era nata all’inizio del secolo scorso, fece tanti figli e sopportò anche le corna, che stupida... Allora mi separo pure io, perché forse lei o lui mi ha tradito, anche se poi dovrò dormire in macchina perché l’equilibrio economico su cui si basava la nostra vita era appeso a un filo e lo abbiamo spezzato. 
Modelli, colpa dei modelli, datemi retta.

Mi piacerebbe tanto sapere se c’è un sociologo (o magari uno psicanalista) che abbia analizzato certi effetti sulla popolazione della tv in tutte le case. Ad esempio: chi è cresciuto guardando le gambe delle gemelle Kessler, e poi quelle di Raffaella Carrà, che idea si sarà formato della sua donna ideale? Non avrà cercato, una volta adulto, quel tipo di gambe in ogni donna che incontrava? Sembra una sciocchezza, ma non lo è. Prima del cinema e della tv, un ragazzino non aveva modo di guardare le gambe a una donna, se non in rari casi, e anche in quei casi si trattava pur sempre di gambe comuni, belle, brutte, lunghe, tozze... A vedere le ballerine a teatro ci andavano solo gli adulti. Vuoi mettere, invece, vedere continuamente belle gambe, gambe lunghe, ben fatte, agili, snelle? Ci cresci, che tu lo voglia o no diventano il “tuo” modello di gambe. Il “tuo” modello di donna. Solo che, poi, non tutte le donne hanno quelle gambe, e le nevrosi fioccano...



E che dire degli stupefacenti? Forse che il contadino o l’operaio dell’Ottocento ne facevano uso? Eppure potrei citare qui una serie interminabile di scrittori che hanno scritto i loro capolavori sotto l’effetto di droghe: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmè facevano parte del Club des Hashischins e si provocavano allucinazioni fumando hashish, come credete siano nate le poesie de Les Fleurs du Mal, Les Paradis artificiels e Opium et haschisch? Pare che perfino William Shakespeare facesse uso di marijuana per comporre le sue opere. Charles Dickens fece uso di oppio, Victor Hugo di hashish e Robert Louis Stevenson di cocaina e morfina. Come credete che scrivesse, in soli sei giorni, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde? E dopo di loro tutti gli altri, scrittori, musicisti, attori... Ognuno prendendo a modello l’altro. Fino agli eccessi ancora biasimati del jazz e a quelli ormai tollerati delle rockstar. Sesso, droga e rock ‘n roll. Perché da una parte le droghe distruggono, dall’altra aiutano molto a creare. E allora, perché loro sì e io no? Droga di massa, mercato miliardario, affari d’oro per chi la commercia, che in fondo non deve essere poi tanto cattivo, se ci porta sotto casa qualcosa che vogliamo così tanto e gli “altri”, quelli buoni, invece non vogliono darci. 
Modelli, colpa dei modelli, datemi retta.

sabato 3 agosto 2019

Sono tornati




    




             Lo avevano atteso per secoli, e finalmente era ritornato. In modo un po’ casuale, gli era toccato di nascere da una donna africana, in una capanna di paglia e di fango. Quasi peggio della prima volta. Per di più, sua madre si era messa in testa di raggiungere l’Europa, insieme con quello che tutti credevano essere suo padre. Si erano messi in cammino, per settimane e settimane, che Lui aveva solo tre mesi. Suo padre era stato torturato e picchiato. Sua madre aveva rischiato di essere stuprata, fortuna che qualcuno da lassù doveva aver evitato che succedesse il peggio. In ogni modo, erano arrivati dove la terra finisce e inizia il mare. Di là del mare c’era l’Europa, con le case, i negozi, gli ospedali, i luna park e i teatri. Lo sapeva solo sua madre, che suo figlio era Lui, come solo le madri possono saperlo. Neanche suo padre, non ancora.
Provarono ad attraversare il mare, ma furono respinti prima dalle onde, poi dagli uomini. Provarono e riprovarono, finché non ci riuscirono; furono raccolti da una nave, sbarcati su un’isola dell’Italia. Salvi.
In un piccolo paese italiano, suo padre trovò un lavoro, dieci ore al giorno per pochi soldi; sua madre si occupò di lui. Crebbe, divenne un ragazzo, poi un uomo. Non c’era fretta, erano trascorsi secoli.
Finalmente venne il tempo di iniziare l’opera per la quale era stato mandato sulla Terra. Stavolta, però, aveva bisogno dell’aiuto delle persone giuste. E stavolta aveva la possibilità di riportare sulla Terra chi sulla Terra non c’era più.
Uno che gli era piaciuto, ultimamente, si chiamava Ernesto. Era un argentino, ma aveva vissuto molto a Cuba ed era morto in Bolivia. Lo richiamò in vita come solo lui avrebbe potuto fare.
– Vieni Ernesto, o preferisci che ti chiami Che?
– Come preferisci, cioè, come ti viene meglio, cioè...
– Vabbe’, ho capito, ti chiamo Che. Ricordati il nostro patto...
– Quale patto?
– Te lo sei già dimenticato? Tu ritorni sulla Terra purché non ammazzi nessuno. Stavolta si fa come dico io, altrimenti ti rispedisco subito da dove sei venuto.
– Giuro. Neanche una mosca nera e fascista.
– Bene, Che. Lo sai perché ti ho voluto con me, in questa nuova avventura sulla Terra...
– Lo so. Devo occuparmi dei problemi materiali degli esseri umani, mentre tu sei alle prese con quelli dello spirito.
– Giusto. Fai conto che questo sia un governo, tu saresti il ministro della sanità, ma anche quello dell’istruzione e della giustizia...
– Tanto, mica sono un comune mortale, posso ricoprire quanti incarichi voglio...
– Non montarti la testa, ora, non sei onnipotente...
– Onnipotente no, superdotato sì. Non vedo l’ora di cominciare.
– Non devi avere fretta, non lo sai che per noi che veniamo dal Cielo, un secolo dura poco più di un giorno?
– Non ho ancora capito cosa siamo venuti a fare.
– Come? A completare l’opera, tu e io.
– Che strana coppia...! E dire che quando ero in vita mi sarebbe piaciuto fare miracoli, ma...
– Quelli lasciali a me. Vorrei che ti concentrassi sulla soluzione dei problemi pratici. Ad esempio: facciamo in modo che tutti gli uomini della Terra abbiano cibo, acqua, medicine per curarsi.
– In questo sono la persona giusta. Sono un medico, lo sai...
– Vedi, Che, mi sono dovuto ricredere. Snobbavo la tua idea di realizzare il paradiso sulla Terra, per me il paradiso era uno soltanto, quello del regno dei cieli. Poi mi sono detto: perché gli uomini devono soffrire in vita per gioire da morti?
– La morte dura in eterno, la vita non è che un passaggio...
– Che, hai cambiato idea anche tu, da quando sei morto?
– Vedo la cosa da un altro punto di osservazione...
– Allora mi sono detto: devo tornare sulla Terra per trasformarla dall’inferno che è sempre stata a luogo di delizie.
– E hai scelto proprio me come aiutante...
– C’è un altro motivo che mi ha spinto a sceglierti...
– Quale, Jesús?
– Quella foto, che ti hanno scattato da morto, sopra quel tavolo di metallo, coi militari attorno. Mi sono rivisto come in quel dipinto, quello di Mantegna: il Cristo Morto. Mi sono detto: ma quello sono io, secoli dopo. Invece no, eri tu.
– Tutti e due siamo morti ammazzati, Jesús. A me però hanno risparmiato la croce.
– Più grande il supplizio, maggiore la gloria.
– E ora eccoci qua, due bei ragazzi, con i capelli un po’ lunghi, la barba, come tanti altri.
– Quanti hanno voluto imitare le nostre sembianze, qualche decennio fa! Non avrei mai pensato di diventare una moda... E tu, Che?
– Torno e cosa scopro? Che sono stati capaci di fare magliette con la mia faccia stampata sopra. Accidenti, per anni ho continuato a vivere sulle t-shirt... Ora però sono tornato per davvero.
– Siamo tornati... E per portare a termine la rivoluzione, giacché ho capito che gli uomini, da soli, non ci riescono.
– Sicuro, la revolución...
– La rivoluzione dell’amore, Che, della pace universale, dell’armonia con il creato e con il Creatore, della giustizia e dell’abbondanza per tutti gli uomini.
– La rivoluzione proletaria, cioè...
– Che... ricorda i nostri patti. Si fa come dico io. Vedrai che la mia rivoluzione sarà anche la tua rivoluzione...
– D’accordo, d’accordo, Jesúscristo... unto di olii e di saggezza. Allora, da dove cominciamo? Dalle banche? Dalle casseforti? Dalle fabbriche?
– Dal cuore dell’uomo, Che.

domenica 21 luglio 2019

Controcultura del 1969



     

   

    Se anche voi vi state chiedendo perché dopo quel 20 luglio 1969 nessun uomo sia più andato sulla Luna allora siete sulla strada giusta per capire che il governo degli Stati Uniti d’America non aveva nessun interesse astrofisico né tanto meno umanitario in quella missione in sostanza non gliene fregava nulla del grande passo dell’umanità di Armstrong e forse neanche ad Armstrong stesso forse l’unico scopo era piantare quella cazzo di bandiera a stelle e strisce anche lassù fortuna che dalla Terra non si vede a occhio nudo altrimenti ci girerebbero i coglioni ogni volta che di notte alziamo gli occhi al cielo perché mentre noi massa venivamo distratti dalle voci di Houston e dalle immagini grigie di due pupazzoni che saltellavano sulla sabbia della crosta lunare quegli stessi americani in Vietnam bruciavano i vietcong e i loro bambini con il napalm e Nixon come Giano bifronte annunciava ritiri delle truppe mentre cercava di estendere il conflitto in Laos e Cambogia non potendo attaccare direttamente l’URSS gli si faceva capire chi comanda così deboli coi forti forti con i deboli la grande menzogna dell’incidente del Tonchino e quindi 25 miliardi di dollari solo per mandare un messaggio ai sovietici in cui gli yankees scrivevano questo è per lo Sputnik per Jurij Gagarin e anche per la cagnetta Laika che Dio l’abbia in gloria sporchi comunisti la Luna non sarà mai rossa cosa sono 25 miliardi di dollari se in dieci anni di guerra in Vietnam ne abbiamo spesi 250 cosa sono migliaia di morti però bisognava distogliere il mondo da quelle immagini che quei fottuti fotografi scattavano in Vietnam i bambini che fuggivano nudi dai bombardamenti le migliaia che manifestavano a Washington contro la guerra John Lennon che cantava “give peace a change” non preoccuparti verrà anche il tuo turno abbiamo un metodo infallibile per uccidere i presidenti così come i cantanti che ci stanno sulle palle l’assassinio per mano di un folle fa parte della nostra idea di democrazia e allora ha ragione chi dice che la missione lunare fu tutta una messa in scena anche se è ingenuo pensare che tutto fu filmato in uno studio di Hollywood magari da Stanley Kubrik no stavolta si scelse un set originale ci si andò per davvero sulla Luna per girare il più grande film propagandistico della storia americana e non solo d’altra parte non c’è da stupirsi che il razzo Saturno fu costruito da uno scienziato tedesco nazista chissà se mai redento davvero in fondo i calcoli sono gli stessi sia che si voglia distruggere sia che si voglia conquistare non c’è differenza signori miei è la scienza al servizio del potere che ci piaccia o no era il 1969 e succedevano tante cose tutte insieme ma noi eravamo bambini e queste cose allora non potevamo capirle.

Foto Archivio Peter Arnett, sbarco di marines americani sulle spiagge del Vietnam
 

giovedì 4 luglio 2019

Dialogo con un morto




Non so ancora se il seguente dialogo io l’abbia sognato, in uno di quei sogni lunghissimi, il più lungo che io abbia mai fatto, o se l’abbia invece immaginato da sveglio. So che lui era di fronte a me, seduto su una sedia - in controluce potevo appena indovinare il suo volto - e che gli ho parlato. Ho parlato a un morto.




          Cesare Pavese fumava la pipa. La fumava anche nel mio sogno, la teneva in una mano. L’altra era appoggiata su una gamba. Sembrava sereno, come se avesse dimenticato, ormai, tutto quello che aveva scritto e pensato e sofferto. In lui non c’era più traccia del tumulto di un tempo.

Stavamo in silenzio, poi a un tratto mi domandò:

– Raccontami tu qualcosa. Io non ho più niente da raccontare. Ho già scritto tutto.

– Cosa vuoi che ti dica? – gli risposi.

– Raccontami tutto quello che è successo dopo.

Dopo cosa? – replicai.

– Dopo che me ne sono andato, – fece lui.

E quasi scomparve nella nuvola di fumo grigio sbuffata dalla pipa. Avevo preso a sudare, come si suda quando si sogna di essere inseguiti o di cadere nel vuoto. Un sudore d’ansia. Perché aveva scelto proprio me per sapere cosa era accaduto nel mondo dopo che lui lo aveva volontariamente abbandonato? Era stato forse preso da un rimorso? Avrebbe voluto, da morto, ritornare a vivere, sull’unica terra in cui esiste la vita come la conosciamo? Certo, io avevo letto molto di tutto ciò che aveva scritto quando era in vita, non per questo potevo essere considerato il suo maggiore conoscitore. Allora, perché proprio io?

Smisi di farmi domande e cominciai a ricordare gli avvenimenti seguiti a quel 1950. Doveva essere proprio un sogno, perché la memoria sembrava procedere secondo un tracciato che non corrispondeva alle mie idee, ma a quelle dell’uomo che avevo di fronte. Un uomo morto da oltre sessant’anni.

Il primo fatto che mi venne in mente fu la poesia della beat generation.

– I poeti americani, – dissi – li ha scoperti per noi Fernanda Pivano, lo sai?

– Era tanto carina, Nanda, e giovane. Mi piaceva il suo sorriso, e come strizzava gli occhi. E così gli ho attaccato la malattia dell’America...

– Direi proprio di sì. Lei c’è andata, in America, c’è rimasta per un pezzo. Li ha conosciuti quasi tutti, i poeti americani. Ah, ti sarebbero piaciuti un sacco! Ti sarebbero piaciuti anche se scrivevano in un modo diverso dal tuo. Ma forse anche tu, col tempo, avresti cambiato il tuo stile.

– Forse, chissà... – mi rispose serio. – Se solo fossi sopravvissuto...

– Stavano per arrivare un mucchio di cose nuove, amico mio, – gli dissi – il mondo stava per cambiare completamente e come mai prima. Te ne sei andato proprio sul più bello. Hai passato una guerra terribile, e non sei riuscito a superare... – e qui mi fermai.

Non avevo il coraggio di dirgli che secondo me s’era ucciso per l’ennesima delusione amorosa.

– ... il rifiuto di una donna? – completò lui la mia frase.

– Non lo so, – balbettai – mi pareva che... a leggere quanto scrivevi prima di...

Tirò un’altra boccata di fumo e scomparve di nuovo in una nebbia grigia. Temetti di non rivederlo più. Invece dopo un attimo era ancora lì, con le gambe accavallate, fermo nella tranquillità che è propria solo di chi non viva.

 – E la Nanda, poi, si è sposata?

Che mi avrebbe fatto questa domanda ne ero certo. Si capiva che gli importava di più dei poeti della beat generation.

– No, mai, – gli risposi. – Altro non chiedermi, non saprei risponderti.

– E poi, e poi? – mi incalzò.

– Poi venne un anno di cui ci ricordiamo ancora oggi, anche se ne è passato di tempo. L’anno in cui nacquero i giovani, in cui diventarono una popolazione a sé. Prima, se non eri più un ragazzo eri un adulto. Ora, in mezzo, fra ragazzi e adulti, c’erano i giovani. Molti, poi, avrebbero cercato di restare in questa età, in questa popolazione, molto più a lungo di quanto ragionevolmente concesso. Ma allora eravamo nel 1968 e i giovani, costituitisi in categoria sociale, si scoprivano non rappresentati nella società e reclamavano il loro diritto a decidere. Per se stessi, per il loro futuro. Insomma, ci fu la rivolta studentesca, in America, in Francia e anche in Italia. Si occuparono le scuole e le università. Si manifestò violentemente contro lo stato e ci furono duri scontri con la polizia e i carabinieri. Ragazzi coi libri da una parte, che tiravano sampietrini, e ragazzi in divisa dall’altra, che sparavano lacrimogeni e davano manganellate.

– Che cosa triste... – commentò lui storcendo un poco la bocca. –  E poi, credevo che i manganelli fossero spariti con il fascismo.

– Troppe cose non sono finite con il fascismo, – risposi amaro.

– E gli intellettuali, cosa dicevano?

– Stavano un po’ di là e un po’ di qua... C’era chi si sentiva spiazzato, confuso. Era una rivolta contro la società borghese fatta dai figli dei borghesi, mentre i figli dei contadini, dei proletari, i poliziotti, erano mandati a difenderla.

– Sei confuso e stai confondendo anche me... – disse poi aspirando un’altra tirata dalla pipa.

– Forse perché la polizia e i carabinieri difendono qualsiasi cosa si dica loro di difendere. Ubbidiscono agli ordini.

– Oppure perché quei giovani poliziotti aspiravano a diventare, anche loro, dei borghesi. Così difendevano la classe a cui ancora non appartenevano, ma alla quale miravano, – fu la sua interpretazione.

– A qualcuno, però, fra gli intellettuali, quelle teste di poliziotti spaccate, col sangue che colava giù per il viso, facevano pena, o simpatia. Pasolini, ad esempio.

– Uno scrittore?

– Uno che è stato molte cose, ma soprattutto un poeta. Ah, se ti fossi fermato ancora per un po’, chissà cosa vi sareste detti, voi due...

– Tu che lo hai conosciuto, credi che saremmo andati d’accordo?

– Non lo so. Non hai un carattere facile, tu. E nemmeno lui. Però non litigava mai con nessuno, era un uomo pacifico. Poi lo hanno ammazzato.

– Come succede spesso ai miti... – disse sicuro.

– E a chi accetta il proprio destino, – aggiunsi.

– Nessuno l’accetta... Non hai letto “Schiuma d’onda”?

– Il tuo racconto dei “Dialoghetti”?

– Saffo risponde a Britomarti, la ninfa: “non l’accetto, lo sono”. Così, lui era il suo destino.

– Proprio come lo eri tu... – rispondo.

Lo vedo portarsi la pipa alla bocca e tirare più forte, quindi emettere una nuvola di fumo che sembra allargarsi a dismisura, fino a farlo scomparire del tutto.

Stavolta, però, quando il fumo si dirada Cesare Pavese è scomparso.


Sono rimasto male, perché avrei voluto dirgli ancora qualcosa: che aveva ragione sull’URSS, quando scriveva sull'Unità come “compagno di strada”, e che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era finita e si era eclissato anche il socialismo e con essi era finito, in anticipo, il Novecento.
 

Calcio e libido, cocktail perfetto



 

           Parlo da uomo, si capisce, anche se cerco di tenere fuori, per quanto possibile, i condizionamenti dell’educazione, della cultura, dell’appartenenza a un sesso invece che a un altro. Anche se cerco di denudare l’istinto e di ragionare solo con quello.

Penso, chissà quanti uomini avranno guardato per la prima volta, in assoluto o nella loro vita recente, un incontro di calcio fra donne, seguendo il Mondiale femminile. Fra donne che sanno giocare a calcio come gli uomini. È capitato anche a me, che finora avevo visto solo qualche azione di sfuggita di campionati regionali. 
Ora invece, una partita intera. 
Ecco che allora, da uomo che cerca di scrollarsi di dosso le costruzioni culturali, non ho potuto fare a meno di guardare quelle immagini e avvertire prepotentemente un elemento nuovo, che in qualche modo disturbava la visione del gioco. 
L’attrazione sessuale. 
Le calciatrici sono giovani, atletiche, agili. Anche se compostissime nelle loro divise, appositamente studiate per risultare il meno possibile erotizzanti, quando le inquadrano in primo piano, con i capelli bagnati di sudore appiccicati alla fronte, tu non puoi fare a meno di immaginarle in altre situazioni in cui la loro femminilità viene fuori in tutta la sua dirompente portata.

E questo non perché ragioni da maschio, ma perché sei naturalmente uomo. E ti piacciono le gambe delle donne, se sono ben fatte. Ti piacciono gli occhi delle donne, se hanno qualcosa di languido o un colore che assomiglia all'acqua di mare. Ti piace la pelle delle donne, anche quando è madida di sudore.

Un’esperienza di calcio e sesso, anche se involontario, del tutto inedita per me.

Chissà se alle donne capita la stessa cosa, vedendo giocare gli uomini.