Non so ancora se il
seguente dialogo io l’abbia sognato, in uno di quei sogni lunghissimi, il più
lungo che io abbia mai fatto, o se l’abbia invece immaginato da sveglio. So che
lui era di fronte a me, seduto su una sedia - in controluce potevo appena indovinare
il suo volto - e che gli ho parlato. Ho parlato a un morto.
Cesare Pavese fumava la pipa. La fumava anche nel mio sogno,
la teneva in una mano. L’altra era appoggiata su una gamba. Sembrava sereno,
come se avesse dimenticato, ormai, tutto quello che aveva scritto e pensato e
sofferto. In lui non c’era più traccia del tumulto di un tempo.
Stavamo in silenzio, poi a un tratto mi domandò:
– Raccontami tu qualcosa. Io non ho più niente da
raccontare. Ho già scritto tutto.
– Cosa vuoi che ti dica? – gli risposi.
– Raccontami tutto quello che è successo dopo.
– Dopo cosa? –
replicai.
– Dopo che me ne sono andato, – fece lui.
E quasi scomparve nella nuvola di fumo grigio sbuffata dalla
pipa. Avevo preso a sudare, come si suda quando si sogna di essere inseguiti o
di cadere nel vuoto. Un sudore d’ansia. Perché aveva scelto proprio me per
sapere cosa era accaduto nel mondo dopo che lui lo aveva volontariamente
abbandonato? Era stato forse preso da un rimorso? Avrebbe voluto, da morto, ritornare
a vivere, sull’unica terra in cui esiste la vita come la conosciamo? Certo, io
avevo letto molto di tutto ciò che aveva scritto quando era in vita, non per
questo potevo essere considerato il suo maggiore conoscitore. Allora, perché
proprio io?
Smisi di farmi domande e cominciai a ricordare gli
avvenimenti seguiti a quel 1950. Doveva essere proprio un sogno, perché la
memoria sembrava procedere secondo un tracciato che non corrispondeva alle mie
idee, ma a quelle dell’uomo che avevo di fronte. Un uomo morto da oltre sessant’anni.
Il primo fatto che mi venne in mente fu la poesia della beat
generation.
– I poeti americani, – dissi – li ha scoperti per noi Fernanda
Pivano, lo sai?
– Era tanto carina, Nanda, e giovane. Mi piaceva il suo
sorriso, e come strizzava gli occhi. E così gli ho attaccato la malattia
dell’America...
– Direi proprio di sì. Lei c’è andata, in America, c’è
rimasta per un pezzo. Li ha conosciuti quasi tutti, i poeti americani. Ah, ti
sarebbero piaciuti un sacco! Ti sarebbero piaciuti anche se scrivevano in un
modo diverso dal tuo. Ma forse anche tu, col tempo, avresti cambiato il tuo stile.
– Forse, chissà... – mi rispose serio. – Se solo fossi
sopravvissuto...
– Stavano per arrivare un mucchio di cose nuove, amico mio,
– gli dissi – il mondo stava per cambiare completamente e come mai prima. Te ne
sei andato proprio sul più bello. Hai passato una guerra terribile, e non sei
riuscito a superare... – e qui mi fermai.
Non avevo il coraggio di dirgli che secondo me s’era ucciso
per l’ennesima delusione amorosa.
– ... il rifiuto di una donna? – completò lui la mia frase.
– Non lo so, – balbettai – mi pareva che... a leggere quanto
scrivevi prima di...
Tirò un’altra boccata di fumo e scomparve di nuovo in una
nebbia grigia. Temetti di non rivederlo più. Invece dopo un attimo era ancora
lì, con le gambe accavallate, fermo nella tranquillità che è propria solo di
chi non viva.
– E la Nanda, poi, si
è sposata?
Che mi avrebbe fatto questa domanda ne ero certo. Si capiva
che gli importava di più dei poeti della beat generation.
– No, mai, – gli risposi. – Altro non chiedermi, non saprei
risponderti.
– E poi, e poi? – mi incalzò.
– Poi venne un anno di cui ci ricordiamo ancora oggi, anche
se ne è passato di tempo. L’anno in cui nacquero i giovani, in cui diventarono
una popolazione a sé. Prima, se non eri più un ragazzo eri un adulto. Ora, in
mezzo, fra ragazzi e adulti, c’erano i giovani. Molti, poi, avrebbero cercato
di restare in questa età, in questa popolazione, molto più a lungo di quanto
ragionevolmente concesso. Ma allora eravamo nel 1968 e i giovani, costituitisi
in categoria sociale, si scoprivano non rappresentati nella società e
reclamavano il loro diritto a decidere. Per se stessi, per il loro futuro.
Insomma, ci fu la rivolta studentesca, in America, in Francia e anche in
Italia. Si occuparono le scuole e le università. Si manifestò violentemente
contro lo stato e ci furono duri scontri con la polizia e i carabinieri.
Ragazzi coi libri da una parte, che tiravano sampietrini, e ragazzi in divisa
dall’altra, che sparavano lacrimogeni e davano manganellate.
– Che cosa triste... – commentò lui storcendo un poco la
bocca. – E poi, credevo che i manganelli
fossero spariti con il fascismo.
– Troppe cose non sono finite con il fascismo, – risposi
amaro.
– E gli intellettuali, cosa dicevano?
– Stavano un po’ di là e un po’ di qua... C’era chi si
sentiva spiazzato, confuso. Era una rivolta contro la società borghese fatta
dai figli dei borghesi, mentre i figli dei contadini, dei proletari, i
poliziotti, erano mandati a difenderla.
– Sei confuso e stai confondendo anche me... – disse poi
aspirando un’altra tirata dalla pipa.
– Forse perché la polizia e i carabinieri difendono
qualsiasi cosa si dica loro di difendere. Ubbidiscono agli ordini.
– Oppure perché quei giovani poliziotti aspiravano a
diventare, anche loro, dei borghesi. Così difendevano la classe a cui ancora
non appartenevano, ma alla quale miravano, – fu la sua interpretazione.
– A qualcuno, però, fra gli intellettuali, quelle teste di
poliziotti spaccate, col sangue che colava giù per il viso, facevano pena, o simpatia.
Pasolini, ad esempio.
– Uno scrittore?
– Uno che è stato molte cose, ma soprattutto un poeta. Ah,
se ti fossi fermato ancora per un po’, chissà cosa vi sareste detti, voi due...
– Tu che lo hai conosciuto, credi che saremmo andati
d’accordo?
– Non lo so. Non hai un carattere facile, tu. E nemmeno lui.
Però non litigava mai con nessuno, era un uomo pacifico. Poi lo hanno
ammazzato.
– Come succede spesso ai miti... – disse sicuro.
– E a chi accetta il proprio destino, – aggiunsi.
– Nessuno l’accetta... Non hai letto “Schiuma d’onda”?
– Il tuo racconto dei “Dialoghetti”?
– Saffo risponde a Britomarti, la ninfa: “non l’accetto, lo
sono”. Così, lui era il suo destino.
– Proprio come lo eri tu...
– rispondo.
Lo vedo portarsi la pipa alla bocca e tirare più forte,
quindi emettere una nuvola di fumo che sembra allargarsi a dismisura, fino a
farlo scomparire del tutto.
Stavolta, però, quando il fumo si dirada Cesare Pavese è
scomparso.
Sono rimasto male, perché avrei voluto dirgli ancora qualcosa: che aveva
ragione sull’URSS, quando scriveva sull'Unità come “compagno di strada”, e che l’Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era finita e si era eclissato anche il
socialismo e con essi era finito, in anticipo, il Novecento.