Ti ho aspettato
per trentacinque anni, e ora sei qui, di fronte a me. Che importa se di anni ora
ne ho settantacinque e la vita è tutta alle mie spalle. Sono felice così,
perché alla fine ti ho ritrovata.
Ti ricordi del
nostro primo incontro? Le mani quasi ti tremavano quando ti venni incontro dopo
essere sceso da quel treno che mi aveva portato fino a te. A me tremavano le
gambe, anche se non te l’ho mai detto. Ricordi la prima volta che la tua mano
ha toccato la mia? Io ricordo ancora la prima volta che ho sentito la tua
pelle, calda e morbida. Eri una ragazza
di ventisette anni, mentre io ne avevo già compiuti quaranta, anche se non li
dimostravo. Insieme facevamo proprio una bella coppia. La tua testa, sovrastata
da ciuffi disordinati di capelli biondi, arrivava alla mia spalla; solo di
tanto ero più alto di te. Così, mi bastava chinare un poco il mento, per
baciare i tuoi capelli. Un poco di più per baciare la tua bocca. E, dopo il
primo bacio (ricordi? su quel letto, fra i tuoi disegni a matita sparsi fra le
lenzuola...), quanti ce ne siamo dati? Un’enormità in un tempo troppo breve.
Perché il tempo trascorso insieme fu inversamente proporzionale al sentimento
che ci unì. O almeno, a quella sorta di follia amorosa che mi prese allora e
che mi dura tuttora. Dopo trentacinque anni.
Un anno durò il
nostro amore. Un amore fantasma, perché nessuno doveva saperne niente. Perché noi
due ci eravamo innamorati in un universo parallelo, in cui esistevamo solo noi,
in cui la realtà era come uno sfondo di cartone, una pantomima, un trucco
cinematografico. Tanto desideravamo abbandonarci l’uno nelle braccia dell’altro
che, per poterlo fare, avevamo trasportato il nostro amore su un altro pianeta,
lontano da tutto e da tutti. Come due adolescenti incoscienti ed egoisti, come
tutti gli amanti. Ogni tanto, però, in questi territori arrivava l’eco remota del
mondo reale, con i suoi obblighi e le sue convenzioni, con i suoi doveri morali
e materiali. E allora il sole si offuscava, comparivano nubi minacciose nel
cielo e il nostro amore sembrava un tenero stelo indifeso, lasciato lì alla
furia del vento e della pioggia. Un anno è durato il nostro amore, poi non ti
ho più rivista, fino a oggi. Sono diventato vecchio e anche tu non sei più la
ragazza dalla pelle morbida e calda che mi prese la mano fra la sua, toccando
in quel momento il mio cuore come solo una ragazza innamorata può fare. Però
sei ancora bella. Ti ricordi? Quante parole ci siamo scritti, quante ci siamo
detti. Più parole che baci. Eppure le tue parole, il suono lieve della tua
voce, erano per me come i baci, come le carezze. Quando eravamo lontani e
dovevo rinunciare alla tua bocca e alle tue mani, avevo la compagnia delle tue
parole. Il nostro amore segreto era il più grande e il più bello di tutti gli
amori, proprio perché solo nostro, nascosto a tutti, inaccessibile. Chi avrebbe
potuto minacciarlo, corromperlo, se nessuno poteva conoscerlo? Siamo stati
bravi e forti a tenerlo nascosto, per il tempo che ci siamo riusciti, ma non è
bastato... Poi tu ti facevi raggiungere dal rumore della vita reale, lasciavi
che si sovrapponesse al concerto melodioso che stavamo suonando, incuranti di
tutto. Dicevi: “Quanto potremo continuare così?”, e la tua voce nascondeva una
pena indicibile e profonda. Perché chiedersi quanto, ti rispondevo io. Ti amavo
come si ama l’acqua che ci mantiene vivi. Tu eri per me come un avvenimento
unico, irripetibile, rivoluzionario, di fronte al quale tutto il resto
dell’esistenza sfocava. Mi sono avvicinato a te lentamente, giorno per giorno,
emozione dopo emozione. Mi hai conquistata con la tua inedita personalità.
Prima ancora del tuo sorriso, mi sono innamorato dei tuoi pensieri. Quando ti
ascoltavo, quando leggevo le parole che mi scrivevi e che mi stupivano e mi rapivano,
mai avrei immaginato che a quell’attrazione intellettuale potesse un giorno corrispondere
altrettanta attrazione fisica. E invece fu così. I tuoi pensieri, la tua mente,
non erano affatto diversi dal tuo corpo e dal modo in cui tu me ne facevi dono.
Mi sorprendesti con la tua unicità, con la straordinaria coerenza fra il tuo
aspetto esteriore e il tuo essere interiore. E tutto questo, il fuori e il
dentro di te, corrispondevano in modo estremamente preciso a una idea che
albergava da sempre nella mia mente e nei miei desideri più profondi, come una
chiave corrisponde a un’unica serratura. Come un viaggiatore errante che per
anni cammina alla ricerca dell’altra metà di qualcosa che ha in mano e di cui
non sa cosa fare, incontrandoti io credevo di avere finalmente riunito due
parti di una stessa unità. E questa inattesa scoperta mi rendeva felice come
non lo ero mai stato prima. Non è forse questa l’illusione dell’amore?
Per trentacinque
anni non ti ho più rivista. Però si può dire che ti sono stato sempre accanto.
Sapevo dove e con chi vivevi, che ti eri trasferita e che ti eri sposata. Ho
saputo anche che hai avuto una figlia. Sapevo che non eravamo lontani, ti avrei
potuta raggiungere, ti avrei potuto trovare, se solo avessi voluto. Ma il
dolore inaudito che avevo provato quando mi ero dovuto separare da te, dal tuo
corpo e dai tuoi pensieri (perderli entrambi nello stesso istante fu davvero
insopportabile) mi ha sempre impedito di farlo. La sofferenza acuta è diventata
col tempo un rancore sordo, la fitta iniziale una cicatrice antica che si fa
sentire solo di tanto in tanto. Cosa ne è stato di tutta quella mole di
sentimenti che avevo messo in moto? Dove è finita tutta quella energia che
avevo in corpo? Per anni sono rimasti come sepolti sotto la lastra di ghiaccio
dell’abbandono, della rinuncia, della rassegnazione. Quello che comunemente
chiamiamo “cuore”, l’organo astratto con cui si ama, è rimasto da solo a
sperare. E alla fine ha avuto ragione. Perché ora sei qui, Alessia, e il cuore
ha ripreso a battere con l’esultanza di quei giorni lontani. Come quando, dopo
un’attesa durata settimane, riuscivamo finalmente a incontrarci. Ti ricordi? Ci
davamo appuntamento in una città, lontano da tutti, nel nostro universo
parallelo. Prendevamo in affitto una stanza per amarci, un cielo sotto il quale
baciarci, una piazza da attraversare mano nella mano. Noi due soli, sconosciuti
al resto del mondo. Mi chiedo se, ora che ti ho ritrovata, sarei ancora capace
di fare l’amore con te, a settantacinque anni, come lo facevo allora. La mente
ne è capace, la guida il ricordo ancora vivo, dopo tanto tempo, del tuo corpo
che si offriva al mio sguardo. Ti ricordi? La prima volta che tu e io abbiamo
fatto l’amore, volevi che nella stanza ci fosse poca luce, mi chiedesti di
chiudere ancora un poco le imposte per non lasciare filtrare la luce dorata di
quel pomeriggio d’inizio estate, in quel paese affacciato sul mare dove ci
eravamo rifugiati. E io mi ero alzato dal letto e avevo abbassato la
tapparella, ma non del tutto perché volevo poter vedere i tuoi bellissimi occhi
azzurri, la tua bella bocca umida e generosa di baci, mentre per la prima volta,
come in un sogno, possedevo il tuo corpo. Era tutto semplice, facile, limpido,
con te. L’amore era un gesto naturale, come un respiro, come il movimento lento
del tuo seno nell’ansimare, il battito accelerato del tuo cuore dopo l’amore.
Non eri mai sazia del nostro amore, mai stanca. E così io mi sfinivo
nell’amarti, perché mi sembrava di non averne mai avuto abbastanza di te.
Pensando ai lunghi giorni in cui avrei dovuto nutrirmi solo delle tue parole, desiderando
il tuo corpo, cercavo avidamente di fare scorta di quel piacere. Ma il piacere,
dovevo saperlo, non si può immagazzinare. Nei giorni seguenti ai nostri
incontri, quando ritornavo da solo alla mia vita reale, mi mancavano il calore
del tuo seno, la stretta delle tue gambe, la vista dei tuoi occhi, il tuo abbraccio.
Perché solo stando insieme a te, nell’unione più intima, sentivo di vivere il
punto più alto della mia esistenza. Era come se tutte le cellule del mio corpo
comunicassero contemporaneamente al cervello la loro entusiastica approvazione
per quello che stavo facendo. Ma, alla fine del nostro fare l’amore, era solo
il tuo sorriso a dominare la scena. Perché tu, sfiancata e coi capelli bagnati
di sudore che ti scendevano sul viso e sul collo, mi sorridevi strizzando un
poco gli occhi e allora, d’un tratto, come in una illuminazione capivo perché
ero venuto al mondo, e ringraziavo mia madre per avere sofferto tanto per farmi
nascere, ringraziavo mio padre che da qualche parte dell’universo sconosciuto forse
aveva operato perché io fossi tanto felice. Perché tu, Alessia, mio amore fino alla
morte, mi sembravi talmente bella e perfetta che mi veniva di credere che il
tuo arrivo nella mia vita fosse figlio di un evento soprannaturale. In te
vedevo esattamente ciò che in una donna avevo sempre cercato; eppure, avrei
potuto non incontrarti mai. Chi o che cosa aveva voluto che ti incontrassi?
Possibile che fosse stato solo un caso? Che la pallina della roulette si fosse
fermata proprio sul numero che avevo giocato? Lo dicevi anche tu, con quel tuo
accento di ragazza del Sud: “Chissà, forse tuo padre, da lassù, ha voluto farti
un regalo...”. E il regalo eri tu, dolce ragazza dalle linee del corpo disegnate
per incantare, tu che mai alzavi la voce, mai ti arrabbiavi, tu che riuscivi
sempre a capire cosa volessi. Che bizzarro disegno del destino, però, quello di
incontrare una sola persona, in tutta la vita, che corrisponde perfettamente
alla tua idea di amore, e perderla subito, non poter averla accanto per tutto
il cammino, e ritrovarla soltanto quando la vita è quasi terminata, come una
beffa o un gioco crudele.
Sono passati
trentacinque anni. Mia figlia, che allora era una bambina, quella che tu non
avresti mai voluto far soffrire a causa nostra, ora è una donna matura, che ha
una famiglia sua. Sono sicuro che non le dispiacerebbe sapere che un giorno
sono stato veramente felice con te. Come non avrebbe nulla da ridire se ti
conoscesse ora, che sua madre è morta e io sono vedovo. E anche tu sei tornata
a essere una donna libera. Il tuo matrimonio è finito cinque anni fa. Lo vedi,
amore, abbiamo fatto due strade diverse per ritrovarci allo stesso punto; al
medesimo, forse inevitabile, appuntamento con la solitudine. Avrei preferito
farla insieme a te, tutta questa strada, chissà dove ci avrebbe portato. Ma
aveva ragione quella poetessa quando diceva: “A volte Dio uccide gli amanti perché
non vuole essere superato in amore...”. Forse si può sopprimere la possibilità,
per gli amanti, di continuare ad amarsi. Non però l’amore, perché il mio per te
non si è mai spento.
E il tuo? Forse
non è mai stato vero amore, perché hai saputo resistergli, hai potuto
rimandarlo indietro, dimenticarlo in nome di una vita “normale”, della pace con
i tuoi genitori, dell’approvazione delle tue amicizie. Io ero pronto a
sacrificargli tutto, a perdere tutto per guadagnare te. Mi sono sempre chiesto,
in tutti questi anni, che cosa davvero provavi per me quando i tuoi occhi
azzurri e intensi come gocce dell’oceano esprimevano pienamente amore, quando
le tue mani accarezzavano il mio corpo senza porsi confini, quando la tua bocca
pronunciava le più profonde e sentite parole d’amore. Cosa provavi veramente? È
possibile essere innamorati a tempo determinato, come hai fatto tu? Oppure, è
proprio in questo che si conosce il vero amore da ciò che vero amore non è. Che
lo sai solo in punto di morte, quando puoi dire: l’ho amata per tutta la vita.
E non solo da quando ti ho conosciuta, da molto prima, in modo inconsapevole. Desiderando
con tutto me stesso quella donna che, poi, ho scoperto corrispondere a te, io
ti stavo già amando tanto tempo prima di incontrarti. Ti amavo da quando sono
stato concepito. Così, tu hai potuto dimenticarmi, e non mi hai più cercato. Io
non ti ho mai dimenticata, e ho continuato a cercarti. Non nel mondo reale, però,
dove il nostro amore non aveva mai potuto esistere, ma in quell’universo
parallelo fatto di città di mare, di alberghi, di lunghe telefonate notturne,
in cui ci eravamo amati.
Ora mi guardi,
Alessia, mia incontenibile gioia terrena e mia infinita pena, e forse per la
prima volta capisci la portata del mio amore per te. Chissà se quel giorno in
cui mi dicesti: “Ti prego, non cercarmi più, o farò in modo di sparire...”,
avessi potuto sapere che io avrei continuato ad amarti per trentacinque anni, che
non ti avrei mai dimenticata. Se questo pensiero ti avesse illuminata, tu, di
fronte all’amore integrale, ti saresti arresa e consegnata per sempre a me. E
ora un dubbio mi sfiora, come non mi ha mai sfiorato in tutti questi anni, cioè
se davvero tu meritassi tanto amore. Merita di essere amato chi non fugge di
fronte alla vastità del sentimento dell’altro, chi non lo ripudia, chi non
finge di ignorarlo. Chi lo sa comprendere. Ma tu, dolce ragazza dalle labbra
sinuose, fosti sorda. Conducesti un gioco cattivo: dopo avere suscitato in me,
con la sfarzosa esibizione del tuo essere, un amore sovrumano, mi lasciasti
divorare da questo sentimento. Perché l’amante abbandonato è come un agnello
lasciato ai lupi.
“Non era la cosa
giusta, né per te né per me”, ti sentii pronunciare un giorno. È stato forse
giusto, aspettarti per trentacinque anni, vivendo al fianco di un’altra donna,
amandola di un amore frutto della rassegnazione e della frustrazione? È stato
forse giusto che tu non abbia vissuto accanto all’uomo che ti ha amato più di
qualsiasi altro a questo mondo? Più di tuo marito. Che inutile spreco di sentimenti,
in un mondo di persone che non si amano! Come buttare via il cibo mentre c’è
chi muore di fame.
Ma ora non parliamo
più, Alessia, mio destino mancato. Vieni accanto a me, stringimi forte, non
lasciarmi mai più. Se non è mi è stato dato di vivere con te, voglio almeno
morire con te.
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