giovedì 28 marzo 2019

Ti ricordi?






          Ti ho aspettato per trentacinque anni, e ora sei qui, di fronte a me. Che importa se di anni ora ne ho settantacinque e la vita è tutta alle mie spalle. Sono felice così, perché alla fine ti ho ritrovata.
Ti ricordi del nostro primo incontro? Le mani quasi ti tremavano quando ti venni incontro dopo essere sceso da quel treno che mi aveva portato fino a te. A me tremavano le gambe, anche se non te l’ho mai detto. Ricordi la prima volta che la tua mano ha toccato la mia? Io ricordo ancora la prima volta che ho sentito la tua pelle, calda e morbida. Eri una  ragazza di ventisette anni, mentre io ne avevo già compiuti quaranta, anche se non li dimostravo. Insieme facevamo proprio una bella coppia. La tua testa, sovrastata da ciuffi disordinati di capelli biondi, arrivava alla mia spalla; solo di tanto ero più alto di te. Così, mi bastava chinare un poco il mento, per baciare i tuoi capelli. Un poco di più per baciare la tua bocca. E, dopo il primo bacio (ricordi? su quel letto, fra i tuoi disegni a matita sparsi fra le lenzuola...), quanti ce ne siamo dati? Un’enormità in un tempo troppo breve. Perché il tempo trascorso insieme fu inversamente proporzionale al sentimento che ci unì. O almeno, a quella sorta di follia amorosa che mi prese allora e che mi dura tuttora. Dopo trentacinque anni.
Un anno durò il nostro amore. Un amore fantasma, perché nessuno doveva saperne niente. Perché noi due ci eravamo innamorati in un universo parallelo, in cui esistevamo solo noi, in cui la realtà era come uno sfondo di cartone, una pantomima, un trucco cinematografico. Tanto desideravamo abbandonarci l’uno nelle braccia dell’altro che, per poterlo fare, avevamo trasportato il nostro amore su un altro pianeta, lontano da tutto e da tutti. Come due adolescenti incoscienti ed egoisti, come tutti gli amanti. Ogni tanto, però, in questi territori arrivava l’eco remota del mondo reale, con i suoi obblighi e le sue convenzioni, con i suoi doveri morali e materiali. E allora il sole si offuscava, comparivano nubi minacciose nel cielo e il nostro amore sembrava un tenero stelo indifeso, lasciato lì alla furia del vento e della pioggia. Un anno è durato il nostro amore, poi non ti ho più rivista, fino a oggi. Sono diventato vecchio e anche tu non sei più la ragazza dalla pelle morbida e calda che mi prese la mano fra la sua, toccando in quel momento il mio cuore come solo una ragazza innamorata può fare. Però sei ancora bella. Ti ricordi? Quante parole ci siamo scritti, quante ci siamo detti. Più parole che baci. Eppure le tue parole, il suono lieve della tua voce, erano per me come i baci, come le carezze. Quando eravamo lontani e dovevo rinunciare alla tua bocca e alle tue mani, avevo la compagnia delle tue parole. Il nostro amore segreto era il più grande e il più bello di tutti gli amori, proprio perché solo nostro, nascosto a tutti, inaccessibile. Chi avrebbe potuto minacciarlo, corromperlo, se nessuno poteva conoscerlo? Siamo stati bravi e forti a tenerlo nascosto, per il tempo che ci siamo riusciti, ma non è bastato... Poi tu ti facevi raggiungere dal rumore della vita reale, lasciavi che si sovrapponesse al concerto melodioso che stavamo suonando, incuranti di tutto. Dicevi: “Quanto potremo continuare così?”, e la tua voce nascondeva una pena indicibile e profonda. Perché chiedersi quanto, ti rispondevo io. Ti amavo come si ama l’acqua che ci mantiene vivi. Tu eri per me come un avvenimento unico, irripetibile, rivoluzionario, di fronte al quale tutto il resto dell’esistenza sfocava. Mi sono avvicinato a te lentamente, giorno per giorno, emozione dopo emozione. Mi hai conquistata con la tua inedita personalità. Prima ancora del tuo sorriso, mi sono innamorato dei tuoi pensieri. Quando ti ascoltavo, quando leggevo le parole che mi scrivevi e che mi stupivano e mi rapivano, mai avrei immaginato che a quell’attrazione intellettuale potesse un giorno corrispondere altrettanta attrazione fisica. E invece fu così. I tuoi pensieri, la tua mente, non erano affatto diversi dal tuo corpo e dal modo in cui tu me ne facevi dono. Mi sorprendesti con la tua unicità, con la straordinaria coerenza fra il tuo aspetto esteriore e il tuo essere interiore. E tutto questo, il fuori e il dentro di te, corrispondevano in modo estremamente preciso a una idea che albergava da sempre nella mia mente e nei miei desideri più profondi, come una chiave corrisponde a un’unica serratura. Come un viaggiatore errante che per anni cammina alla ricerca dell’altra metà di qualcosa che ha in mano e di cui non sa cosa fare, incontrandoti io credevo di avere finalmente riunito due parti di una stessa unità. E questa inattesa scoperta mi rendeva felice come non lo ero mai stato prima. Non è forse questa l’illusione dell’amore?

Per trentacinque anni non ti ho più rivista. Però si può dire che ti sono stato sempre accanto. Sapevo dove e con chi vivevi, che ti eri trasferita e che ti eri sposata. Ho saputo anche che hai avuto una figlia. Sapevo che non eravamo lontani, ti avrei potuta raggiungere, ti avrei potuto trovare, se solo avessi voluto. Ma il dolore inaudito che avevo provato quando mi ero dovuto separare da te, dal tuo corpo e dai tuoi pensieri (perderli entrambi nello stesso istante fu davvero insopportabile) mi ha sempre impedito di farlo. La sofferenza acuta è diventata col tempo un rancore sordo, la fitta iniziale una cicatrice antica che si fa sentire solo di tanto in tanto. Cosa ne è stato di tutta quella mole di sentimenti che avevo messo in moto? Dove è finita tutta quella energia che avevo in corpo? Per anni sono rimasti come sepolti sotto la lastra di ghiaccio dell’abbandono, della rinuncia, della rassegnazione. Quello che comunemente chiamiamo “cuore”, l’organo astratto con cui si ama, è rimasto da solo a sperare. E alla fine ha avuto ragione. Perché ora sei qui, Alessia, e il cuore ha ripreso a battere con l’esultanza di quei giorni lontani. Come quando, dopo un’attesa durata settimane, riuscivamo finalmente a incontrarci. Ti ricordi? Ci davamo appuntamento in una città, lontano da tutti, nel nostro universo parallelo. Prendevamo in affitto una stanza per amarci, un cielo sotto il quale baciarci, una piazza da attraversare mano nella mano. Noi due soli, sconosciuti al resto del mondo. Mi chiedo se, ora che ti ho ritrovata, sarei ancora capace di fare l’amore con te, a settantacinque anni, come lo facevo allora. La mente ne è capace, la guida il ricordo ancora vivo, dopo tanto tempo, del tuo corpo che si offriva al mio sguardo. Ti ricordi? La prima volta che tu e io abbiamo fatto l’amore, volevi che nella stanza ci fosse poca luce, mi chiedesti di chiudere ancora un poco le imposte per non lasciare filtrare la luce dorata di quel pomeriggio d’inizio estate, in quel paese affacciato sul mare dove ci eravamo rifugiati. E io mi ero alzato dal letto e avevo abbassato la tapparella, ma non del tutto perché volevo poter vedere i tuoi bellissimi occhi azzurri, la tua bella bocca umida e generosa di baci, mentre per la prima volta, come in un sogno, possedevo il tuo corpo. Era tutto semplice, facile, limpido, con te. L’amore era un gesto naturale, come un respiro, come il movimento lento del tuo seno nell’ansimare, il battito accelerato del tuo cuore dopo l’amore. Non eri mai sazia del nostro amore, mai stanca. E così io mi sfinivo nell’amarti, perché mi sembrava di non averne mai avuto abbastanza di te. Pensando ai lunghi giorni in cui avrei dovuto nutrirmi solo delle tue parole, desiderando il tuo corpo, cercavo avidamente di fare scorta di quel piacere. Ma il piacere, dovevo saperlo, non si può immagazzinare. Nei giorni seguenti ai nostri incontri, quando ritornavo da solo alla mia vita reale, mi mancavano il calore del tuo seno, la stretta delle tue gambe, la vista dei tuoi occhi, il tuo abbraccio. Perché solo stando insieme a te, nell’unione più intima, sentivo di vivere il punto più alto della mia esistenza. Era come se tutte le cellule del mio corpo comunicassero contemporaneamente al cervello la loro entusiastica approvazione per quello che stavo facendo. Ma, alla fine del nostro fare l’amore, era solo il tuo sorriso a dominare la scena. Perché tu, sfiancata e coi capelli bagnati di sudore che ti scendevano sul viso e sul collo, mi sorridevi strizzando un poco gli occhi e allora, d’un tratto, come in una illuminazione capivo perché ero venuto al mondo, e ringraziavo mia madre per avere sofferto tanto per farmi nascere, ringraziavo mio padre che da qualche parte dell’universo sconosciuto forse aveva operato perché io fossi tanto felice. Perché tu, Alessia, mio amore fino alla morte, mi sembravi talmente bella e perfetta che mi veniva di credere che il tuo arrivo nella mia vita fosse figlio di un evento soprannaturale. In te vedevo esattamente ciò che in una donna avevo sempre cercato; eppure, avrei potuto non incontrarti mai. Chi o che cosa aveva voluto che ti incontrassi? Possibile che fosse stato solo un caso? Che la pallina della roulette si fosse fermata proprio sul numero che avevo giocato? Lo dicevi anche tu, con quel tuo accento di ragazza del Sud: “Chissà, forse tuo padre, da lassù, ha voluto farti un regalo...”. E il regalo eri tu, dolce ragazza dalle linee del corpo disegnate per incantare, tu che mai alzavi la voce, mai ti arrabbiavi, tu che riuscivi sempre a capire cosa volessi. Che bizzarro disegno del destino, però, quello di incontrare una sola persona, in tutta la vita, che corrisponde perfettamente alla tua idea di amore, e perderla subito, non poter averla accanto per tutto il cammino, e ritrovarla soltanto quando la vita è quasi terminata, come una beffa o un gioco crudele.

Sono passati trentacinque anni. Mia figlia, che allora era una bambina, quella che tu non avresti mai voluto far soffrire a causa nostra, ora è una donna matura, che ha una famiglia sua. Sono sicuro che non le dispiacerebbe sapere che un giorno sono stato veramente felice con te. Come non avrebbe nulla da ridire se ti conoscesse ora, che sua madre è morta e io sono vedovo. E anche tu sei tornata a essere una donna libera. Il tuo matrimonio è finito cinque anni fa. Lo vedi, amore, abbiamo fatto due strade diverse per ritrovarci allo stesso punto; al medesimo, forse inevitabile, appuntamento con la solitudine. Avrei preferito farla insieme a te, tutta questa strada, chissà dove ci avrebbe portato. Ma aveva ragione quella poetessa quando diceva: “A volte Dio uccide gli amanti perché non vuole essere superato in amore...”. Forse si può sopprimere la possibilità, per gli amanti, di continuare ad amarsi. Non però l’amore, perché il mio per te non si è mai spento.

E il tuo? Forse non è mai stato vero amore, perché hai saputo resistergli, hai potuto rimandarlo indietro, dimenticarlo in nome di una vita “normale”, della pace con i tuoi genitori, dell’approvazione delle tue amicizie. Io ero pronto a sacrificargli tutto, a perdere tutto per guadagnare te. Mi sono sempre chiesto, in tutti questi anni, che cosa davvero provavi per me quando i tuoi occhi azzurri e intensi come gocce dell’oceano esprimevano pienamente amore, quando le tue mani accarezzavano il mio corpo senza porsi confini, quando la tua bocca pronunciava le più profonde e sentite parole d’amore. Cosa provavi veramente? È possibile essere innamorati a tempo determinato, come hai fatto tu? Oppure, è proprio in questo che si conosce il vero amore da ciò che vero amore non è. Che lo sai solo in punto di morte, quando puoi dire: l’ho amata per tutta la vita. E non solo da quando ti ho conosciuta, da molto prima, in modo inconsapevole. Desiderando con tutto me stesso quella donna che, poi, ho scoperto corrispondere a te, io ti stavo già amando tanto tempo prima di incontrarti. Ti amavo da quando sono stato concepito. Così, tu hai potuto dimenticarmi, e non mi hai più cercato. Io non ti ho mai dimenticata, e ho continuato a cercarti. Non nel mondo reale, però, dove il nostro amore non aveva mai potuto esistere, ma in quell’universo parallelo fatto di città di mare, di alberghi, di lunghe telefonate notturne, in cui ci eravamo amati.

Ora mi guardi, Alessia, mia incontenibile gioia terrena e mia infinita pena, e forse per la prima volta capisci la portata del mio amore per te. Chissà se quel giorno in cui mi dicesti: “Ti prego, non cercarmi più, o farò in modo di sparire...”, avessi potuto sapere che io avrei continuato ad amarti per trentacinque anni, che non ti avrei mai dimenticata. Se questo pensiero ti avesse illuminata, tu, di fronte all’amore integrale, ti saresti arresa e consegnata per sempre a me. E ora un dubbio mi sfiora, come non mi ha mai sfiorato in tutti questi anni, cioè se davvero tu meritassi tanto amore. Merita di essere amato chi non fugge di fronte alla vastità del sentimento dell’altro, chi non lo ripudia, chi non finge di ignorarlo. Chi lo sa comprendere. Ma tu, dolce ragazza dalle labbra sinuose, fosti sorda. Conducesti un gioco cattivo: dopo avere suscitato in me, con la sfarzosa esibizione del tuo essere, un amore sovrumano, mi lasciasti divorare da questo sentimento. Perché l’amante abbandonato è come un agnello lasciato ai lupi.
“Non era la cosa giusta, né per te né per me”, ti sentii pronunciare un giorno. È stato forse giusto, aspettarti per trentacinque anni, vivendo al fianco di un’altra donna, amandola di un amore frutto della rassegnazione e della frustrazione? È stato forse giusto che tu non abbia vissuto accanto all’uomo che ti ha amato più di qualsiasi altro a questo mondo? Più di tuo marito. Che inutile spreco di sentimenti, in un mondo di persone che non si amano! Come buttare via il cibo mentre c’è chi muore di fame.
Ma ora non parliamo più, Alessia, mio destino mancato. Vieni accanto a me, stringimi forte, non lasciarmi mai più. Se non è mi è stato dato di vivere con te, voglio almeno morire con te.

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