lunedì 22 aprile 2019

Zitti, comincia er firme...

    

           Il ragazzino che era seduto al primo banco voltò lentamente la testa, c’aveva un ciuffo de capelli biondicci che crescevano disordinati come erbacce ma la nuca pulita, colla sfumatura alta. Accertatosi che lo stessi guardando tirò fuori dalla tasca un mazzetto di figurine tenute insieme coll'elastico e da sotto al banco me lo mostrò. Da quel suo gesto capii che durante la ricreazione avremmo fatto a scambio di doppioni. La maestra, che lo aveva proprio sotto gli occhi, se ne accorse e lo richiamò ad alta voce.
– Rosati! La lavagna sta da questa parte! – lo redarguì severa. Rosati ficcò di corsa le figurine in tasca e tornò a stare dritto, fissando la lavagna e fingendo di prestare attenzione alla lezione. La maestra guardò allora al resto della classe, per capire chi fosse il compare con il quale Rosati stava duettando, ma non riuscì a individuarlo. Per stavolta l’avevo scampata. Non sopportavo di essere ripreso dalla maestra. Lei era così diversa da mia madre. Aveva i fianchi larghi e il sedere prominente, che tendevano fino all'estremo il tessuto della gonna che indossava. Mia madre invece era magra e certe gonne le cadevano di dosso, specie nei periodi in cui non stava bene. Anche lei mi sgridava, quando facevo qualcosa che non avrei dovuto fare, ma da lei lo accettavo. Anche se mi dava uno schiaffo – una volta ho sentito il tocco duro di un anello sulle labbra –, non le portavo rancore. Era mia madre, l’unica che potesse farlo.
Alle dieci del mattino la classe aveva un odore tutto particolare. Non ci sono parole per definirlo. Non potrei dire: era l’odore delle cartelle di pelle o del sapone con il quale le nostre madri ci lavavano il viso. Era un odore che non esisteva in natura. L’odore di tutte le nostre case, di tutti i nostri vestiti, di tutte le nostre vite. Tutto messo insieme. E questo odore conteneva al tempo stesso l’aroma delle frittate di cipolle, delle minestre di broccoli, delle sigarette di papà, del profumo di mamma, della cera per i pavimenti, dei cappelli bagnati di pioggia, dei calzini sudati, dei sughi alla carne, dell'inchiostro dei libri, della muffa negli armadi. Ma alle dieci del mattino, a quell'odore ci eravamo abituati e non lo sentivamo più.
– Che ce l’hai Domenghini? – mi domandò frenetico Rosati alla ricreazione, stringendo in pugno il suo mazzo di figurine.
– No, – gli risposi – ma c’ho Corso.
– E che ce faccio? – mi fece eco Rosati – ce n’ho due de Corso... tiè, eccole qua... – e così facendo tirò fuori dal mucchio le due figurine con il calciatore dell'Inter.
– Se voi te posso dà Cinesinho – provai a tentarlo – è della Juventus. ‘O vedi, c’ha pure ‘na stella su ‘a maglia...
– Cinesinho nun ce l’ho... e che voi in cambio?
– Ce l’hai Nestor Combin?
– Chi? – domandò come irritato Rosati.
– Combin, quello der Torino che c’ha quella faccia strana...
– D’accordo, io te do Combin e tu me dai Cinesinho...
Ci scambiammo le figurine. Io misi quella di Combin nel mazzo, infilandola tra gli altri giocatori del Torino. Mi piaceva essere ordinato. Rosati piazzò la figurina che gli avevo dato in fondo a tutte, senza troppi riguardi. C’aveva fretta. Alle sue spalle era sopraggiunto Spagnoli e lo spingeva gridandogli in un orecchio.
– Oh, che ce l’hai Domenghini?!
Rosati alzò gli occhi al cielo, rimise l’elastico al mazzetto di figurine e infine rispose.
– Seee... magari. Se c’hai dieci lire comprate ‘n pacchetto, può darsi che ce ‘o trovi...
– A Rosa’, – gli rispose paraculo Spagnoli –, perché nun me le presti te, dieci lire?
– A Spagno’ – gli fece eco Rosati – perché nun te ne vai affanculo?
Rosati abitava a Pietralata, a casa sua non c’ero mai stato perché era troppo distante da dove abitavo io. Spagnoli invece stava di casa quasi di fronte alla scuola, alla fine di via Lanciani. Una volta che ero salito a casa sua, due cose mi avevano colpito: che sua madre era bionda e parlava con un accento strano, difatti era veneta, e che dalla finestra della sua camera si vedeva la linea ferroviaria con i treni che viaggiavano. Mi piacevano i treni, mio padre mi portava a vederli sfilare dal grande ponte che scavalcava la ferrovia. Di sera si vedevano le persone sedute dentro, che andavano chissà dove. Anche in posti lontani, come Milano, mi diceva mio padre. Mi piacevano perché erano di tutti e di nessuno, potevano portare anche me, mio padre, mia madre e mia sorella, che non avevamo una macchina, in qualsiasi città, anche a Napoli o a Milano. Mi rendevano uguale a quei bambini che a scuola raccontavano di viaggi fatti con l’auto di papà.
– E tu’ padre che macchina c’ha? – mi domandavano a volte gli altri ragazzini.
Ce l’avevano tutti, una macchina. Tutti o quasi. Allora spesso mentivo, dicevo: 
– La Cinquecento – per non esagerare con la bugia. 
Ma a quelli che mi conoscevano meglio dovevo dire la verità.
– Mi’ padre non ce l’ha la macchina. A che ce serve? Tanto con l’autobus e il treno andiamo dappertutto. 
Ma era un’altra bugia. Perché noi non andavamo mai da nessuna parte.

domenica 21 aprile 2019

Frammenti di discorsi #4

In a train, Henri Cartier-Bresson, 1975

Agosto 1976
Era di moda fumarsi una marlboro, dopo aver fatto l’amore. Così facevano, allora, un ragazzo e una ragazza in un appartamento del quartiere Trieste di proprietà dei genitori di uno di essi, in assenza di questi, sdraiati sul letto matrimoniale, un filo di sudore sulla pelle, le finestre aperte con le tapparelle abbassate.
– Dici che stavolta ce la rischiamo? – fece il ragazzo aspirando una boccata di fumo.
– Può essere... non ci sei stato attento come fai sempre, – rispose la ragazza tenendo la sigaretta fra l’indice e il medio della mano.
– Pensa se ci nasce un figlio... – aggiunse lui.
– No, meglio che non ci penso... – ribattè lei.
– Se nasce femmina mi piacerebbe chiamarla Vittoria. Perché deve essere una che vince, una forte, una roccia, – proseguì il gioco il ragazzo.
– Sono d’accordo... ma se nasce maschio lo chiamiamo Giorgio, – sentenziò la ragazza sbuffando fumo dalle narici.
– Come Almirante?
­– Seee... Come Chinaglia.

domenica 14 aprile 2019

Piccola storia crudele del capitalismo (americano)



     
Dunque, per diventare quello che è oggi, il mondo inizia a cambiare alla fine del XV secolo. Navigatori europei scoprono nuove terre al di là dell’Oceano; non sono le Indie, come si credeva, ma un altro continente, cui viene dato il nome di America.
I navigatori sono esseri romantici, si sa, mossi nient’altro che dalla sete di scoperta e dall’ambizione della fama imperitura. Ma i monarchi, i capi militari, i mercanti, no. A loro delle nuove scoperte non interessano la geografia, le culture antiche, la flora e la fauna. No, a loro interessano esclusivamente le ricchezze. Oro, argento, rame. E la terra, come qualcosa da possedere e da sfruttare.

Dunque all’inizio il nuovo continente viene semplicemente sfruttato: le navi partono dalla Spagna, arrivano in America, fanno il carico di metalli preziosi e ripartono per tornare in Spagna. Se non incontrano i pirati, che di solito sono inglesi e si comportano un po’ come gli avvoltoi con le prede uccise e smembrate dai grossi felini. Vanno a rubare in casa dei ladri, insomma.
Spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, vanno in America e si comportano come se fosse una terra disabitata. “L’abbiamo scoperta noi, è nostra!”. In realtà sono degli invasori, ma guai a dirglielo. Quella terra, infatti, è di qualcun altro, altri popoli che la abitano da secoli e secoli, ma gli invasori fanno finta di niente. “Davvero ci sono gli Incas?”. “Davvero ci sono i Pellerossa?”. Prima che il resto del mondo si accorga che quelle terre sono abitate, cercano di sterminare tutti i nativi. Ci riescono in parte, soprattutto nella parte a sud. Gli indigeni della parte a nord sono più numerosi e combattivi, e quando si accorgono che gli ospiti venuti dall’Oceano non sono affatto gentili né educati, anzi sono piuttosto rozzi e crudeli e ingordi, cercano di rendere loro pan per focaccia. Però hanno solo archi e frecce mentre quegli altri fucili e pistole, e la lotta non è pari. Si sa come andrà a finire.

Di tutte le razze, ops!, le etnie in cui si divide il genere umano, quella di pelle bianca si è finora dimostrata essere la più ostinata, vorace, perfidamente intelligente e brutalmente violenta. Certo, violente lo sono state anche le altre, ma gli uomini di pelle bianca hanno dato prova di saper essere brutali e al tempo stesso civilizzati, come se le due cose non fossero naturalmente in contrasto fra loro. Ragione per cui, per una incomprensibile legge di natura, l’uomo bianco finora ha prevalso sugli altri. Soprattutto sugli uomini dalla pelle rossa e nera.

Dunque, dicevamo che in principio gli europei, che hanno scoperto l’America, ne sfruttano le ricchezze. Ma in numero sempre maggiore vi si stabiliscono. Quelli che sono andati a stare nella parte a nord a un certo punto sono così tanti che iniziano a sentirsi anche loro sfruttati dalla madrepatria e vorrebbero staccarsi dalla Gran Bretagna. Per questo fanno una guerra d’indipendenza, e la vincono, perché sono più determinati di quelli che sono rimasti in Europa, e creano uno stato, anzi, tanti stati, ogni anno ce n’è uno che vuole aggiungersi all’Unione. Tanti stati, tanti uomini, tutti di pelle bianca. Non c’è posto per gli uomini dalla pelle rossa, che arditamente reclamano le loro terre, i loro fiumi, il loro bestiame. Devono essere sterminati e i superstiti rinchiusi in riserve. C’è posto, invece, e tanto, per gli uomini di pelle nera, che notoriamente, e oziosamente, vivono in Africa.
Europa, America, Africa. Disponendo questi tre continenti su un piano e collegandoli fra loro con delle linee otterremmo un triangolo.

Ora pensate un po’ voi: a questi furbi, ingegnosi, laboriosi, ma parimenti crudeli e spietati, uomini bianchi d’America, non basta arricchirsi coltivando le terre che erano dei Sioux e degli Apache, commerciando in pelli di bisonte o di castoro, estraendo carbone dalle miniere, per di più sfruttando anche il lavoro dei minatori.
Perché essere solo ricchi quando si può essere ancora più ricchi? Loro forse ancora non lo sanno, ma stanno agendo in nome di un fato che deve compiersi: stanno accumulando ricchezze, tante ricchezze, molte di più di quanto un uomo possa godere in tutta la vita, ma non per questo inutili. Serviranno a generare un mostro che dominerà i secoli a venire. Ma andiamo per gradi...

Siamo più o meno nel Settecento, il secolo dei lumi in Francia, ma ci sono uomini che vivono nelle tenebre dell’avidità; questi uomini, avventurieri e mercanti, viaggiando per commerci lungo le coste dell’Africa, un bel giorno hanno un’idea. Gli uomini di pelle bianca hanno sempre grandi idee: la stampa, il telescopio, il pantografo... Ma questa è un’idea che farà arricchire tutti, europei e americani (attenzione: quando si dice che tutti si arricchiscono non è proprio così... qualcuno che ci perde, e anche tanto, c’è sempre...). C’è qualcosa che vale ancora di più dell’avorio che razziano in Africa per rivenderlo in Europa, qualcosa che vale ancora di più dell’oro che rubano in terra straniera. Le loro navi hanno stive capienti, e allora l’idea è di riempirle di negri. Uomini, donne, bambini. Non fa differenza. L’America, per crescere e diventare ancora più ricca (non si tratta di sopravvivenza, si badi bene, loro ancora non lo sanno ma la storia gli ha affidato il compito di dare alla luce una creatura di dimensioni smisurate e di infinita potenza) ha bisogno di braccia, di forza lavoro, che non costi nulla o quasi.
Come hanno fatto gli Egizi a costruire le piramidi? Ecco, loro aiuteranno gli americani a costruire un’enorme piramide fatta di attività economiche, di denaro, di interessi, di soprusi, di sangue, a costruirla come fecero gli Egizi tremila anni prima: servendosi di milioni di schiavi.

Loro ancora non lo sanno, agiscono come in preda a un raptus, non sanno che nome avrà, qualche tempo dopo, la grande costruzione che si apprestano a erigere per mezzo di veri e propri sacrifici umani. Non si rendono conto di essere come quegli Atzechi che hanno sterminato, nella parte sud dell’America. Fautori dell’orrore civilizzato (secoli più tardi, europei e americani daranno ancora grande prova di questa loro arte, nei campi di concentramento o a Hiroshima e Nagasaki).
Ed ecco allora il triangolo maledetto. Gli europei (inglesi, olandesi, francesi) si organizzano, si fanno finanziare, creano società, stipulano assicurazioni (l’orrore civilizzato!) e vanno con le loro navi in Africa, dove acquistano in cambio di merci e armi gli schiavi dalle tribù che nel frattempo li hanno catturati. Caricano gli schiavi, uomini, donne, bambini, nelle stive delle navi, come se fossero merci, come dei tronchi di legno, allineati uno di fianco all’altro, e partono per l’America. Là in molti li aspettano e pagheranno bene quella merce umana. Due o tre mesi in mare. Agli schiavi viene data solo poca acqua e poco cibo, quando ce n’è.
Considerando la vita (anche se si fa molta fatica a chiamarla ancora così) che li aspetta una volta arrivati a destinazione e assegnati al loro “padrone”, forse va meglio a quelli, e sono tanti, che muoiono durante la traversata. A quelli che l’America, terra di libertà e di sogni, non la vedono neanche.

Gli storici hanno calcolato che gli schiavi d’Africa giunti in America nei secoli XVIII e XIX siano stati circa 15 milioni. Ai quali vanno aggiunti quelli partiti e mai arrivati. Per far finire del tutto lo schiavismo ci vorrà un’altra guerra e un presidente che, non a caso, morirà assassinato.
Gli schiavi si chiamano così perché non sono liberi di andarsene quando e dove vogliono, hanno catene materiali o metaforiche, ma pur sempre catene. E perché il loro lavoro non viene pagato, se non con il cibo necessario alla loro stessa sopravvivenza.
Gli schiavi lavorano nelle case, ma soprattutto nei campi. Raccolgono il cotone e il tabacco. Con il cotone si fanno abiti che vengono venduti in tutta l’America e in Europa, generando un’enorme ricchezza. I profitti si fanno ancora maggiori con la rivoluzione industriale. Le prime macchine utilizzate nelle prime fabbriche sono quelle tessili. Dunque, la filiera (si direbbe oggi) del prodigio economico americano è questa: gli schiavi raccolgono il cotone a costo quasi zero, i poveri lavorano alle macchine tessili sfruttati fino a 15 ore al giorno (d’estate in cui c’è più luce), anche donne e bambini sopra i 10 anni di età. La vendita del cotone prodotto con manodopera così a buon mercato genera enormi profitti. Queste ingenti somme vengono accumulate e verranno successivamente reimpiegate, o date in prestito, per nuove attività industriali.

Questo enorme accumulo di denaro, ottenuto grazie allo schiavismo, allo sfruttamento del lavoro umano, alla depredazione di terre e risorse naturali che appartenevano ai popoli indigeni, è ciò che in epoca moderna va sotto il nome di “capitale”. E questo capitale, creato in origine in modo così ignominioso, continua ancora oggi a passare di mano, ad accrescersi ulteriormente con gli stessi mezzi, a generare altro capitale come per partenogenesi, a cambiare sembianze e nome, a determinare la vita e la morte delle persone, il loro benessere o la loro miseria, come un demone infuriato, un dio malvagio e inumano che non conosce il senso della giustizia e non teme nemici.

venerdì 12 aprile 2019

Frammenti di discorsi #6


Voce del verbo venire


– Non muoverti fino a che non vengo, – disse l’uomo.

– Devo sopportare questo peso addosso ancora per molto? – fece in risposta la donna.

– Devi darmi il tempo di venire, – ribadì lui. – Dammi il tempo di venire e tutto avrà fine.

– Mi sento opprimere, sul petto, sul ventre, sul bacino...

– Tu comunque non muoverti, hai capito? Stai ferma, resta immobile.

– È così importante che io non mi muova?

– Importantissimo. Non so come spiegartelo, quanto sia importante. Ferma, immobile, fino a che non vengo.

– Non ce la faccio più, mi sento morire...

– Ora non esagerare, hai ancora fiato in gola per parlare. Qualche minuto e tutto sarà finito. Solo pochi minuti e vengo.

– Fai presto.

– Non dipende da me.



L’uomo attaccò il telefono e prese a suonare il clacson all’impazzata. Il traffico era davvero paralizzato, a quell’ora della sera. La sua automobile si muoveva a passo di tartaruga e sua moglie giaceva sotto a un pesante armadio che le si era rovesciato addosso, immobilizzandola dalla vita in giù.


mercoledì 10 aprile 2019

Frammenti di discorsi



#1
Salvini e i nazisti
Mi fermo all’edicola del paese per fare acquisti. Poco più in là, un giovane di colore espone sul marciapiede manufatti di legno creati da lui.
è bravo, penso, e almeno non elemosina.
Un signore anziano, che staziona spesso a lungo davanti all’edicola scambiando chiacchiere con l’edicolante, sembra pensarla diversamente. Senza fare riferimenti diretti, guardando altrove, dice:
– Eh, lo so io cosa ci vorrebbe qui... Ci vorrebbe zio Adolf...
Zio Adolf? Capisco e lo guardo con aria di commiserazione.

#2
Femminismo
Durante la solita passeggiata sotto casa con il cane, incrocio una donna di mezza età, un poco sovrappeso, leggermente incanutita, che parla animatamente al cellulare.
– Non è stato educato, te l’ho detto, mamma. Cioè, ha ricevuto solo l’educazione da sua madre, non da un’altra donna. Un’educazione famigliare. Ma se è così, è perché gli è mancata quella esterna, l’educazione di una donna.
Ecco una donna da cui mi terrei bene alla larga, penso.

#3
Legittima difesa (putativa)
18 gennaio 1977: il calciatore della Lazio, Luciano Re Cecconi, entra con il compagno di squadra Ghedin e un altro amico in una gioielleria. Col bavero alzato e le mani in tasca, per fare uno scherzo, grida: “Fermi tutti, questa è una rapina!”. L’orefice estrae una pistola, Ghedin fa in tempo a tirare fuori le mani dalle tasche, Re Cecconi no. L’orefice spara e lo uccide sul colpo. Forse Salvini era troppo piccolo, allora, per ricordarsene oggi.



#5

15 dicembre 1974: Napoli-Juventus
Quando ero un ragazzino le partite di calcio si ascoltavano alla radio, la domenica pomeriggio soltanto. La nostra radio era un apparecchio a transistor che riproduceva la voce a bassa fedeltà delle onde medie. L’ascoltavamo, io e mio padre, seduti attorno a un tavolo, grattando con le dita il tessuto della tovaglia che vi era stesa sopra, quando il risultato ci innervosiva. E quella domenica di dicembre del 1974 i nostri nervi erano tesi, perché si giocava Napoli-Juventus. E mio padre tifava Napoli, la sua città, e io tifavo Juventus, anche se ero nato a Roma. In quel campionato le nostre due squadre si giocarono lo scudetto, testa a testa in alcune giornate, fino all’ultimo.
Mio padre era convinto che il Napoli avrebbe battuto la Juventus, perché aveva dalla sua il caloroso tifo del San Paolo. Invece segnò per prima la Juventus, con Altafini. Esultai, c’erano ancora tanti minuti di gioco per rimontare, dissi a mio padre. Ma poi, ecco un rigore per la Juventus: 2-0. E poi, prima del fischio, un altro goal: 3-0. Il ragazzino che ero non poteva essere più felice per il trionfo della sua squadra. Io però mi vergognavo di esserlo, perché avevo di fronte mio padre con la faccia degli sconfitti. Le notizie che arrivavano dagli altri campi dicevano che quasi tutti gli incontri si erano chiusi sullo 0-0 alla fine del primo tempo, e questo aggiungeva amarezza alla sonora sconfitta che la squadra di mio padre stava subendo. L’incontro riprese e non passò molto che la Juventus segnò un altro goal. Questo forse diede la sveglia ai giocatori del Napoli, che riuscirono a infilare il pallone alle spalle di Zoff: 4-1. La partita sarebbe anche potuta finire lì, concludersi in anticipo per risparmiare fatica ai giocatori. Ovviamente si giocò fino al novantesimo. Così, arrivò ancora un altro goal della Juventus, a cui fece seguito il riscatto del centravanti del Napoli, Clerici, con una doppietta: 5-2. A sei minuti dal termine, impietoso Viola violò ancora una volta il povero Carmignani, il portiere del Napoli: 6-2. Ormai non mi riusciva più di esultare, accoglievo ogni nuovo goal della mia squadra come un evento non previsto, e non voluto. A me sarebbe bastata una vittoria per 1-0, oppure no, un pareggio. Un classico 1-1 o un più divertente 2-2 o, meglio, 3-3, quelle partite in cui le squadre si rincorrono come due ragazze che giocano, finendo per non farsi del male. Invece era andata come era andata, e al fischio finale non riuscivo a trovare le parole per commentare. Restai muto, come il pubblico del San Paolo, composto in gran parte da tifosi del Napoli.
Alla fine quel campionato lo vinse la Juventus, ma con soli due punti di vantaggio sul Napoli, che sperò fino all’ultima giornata nella eventualità di uno spareggio.
 

sabato 6 aprile 2019

Nuova Europa

 

     C’era un tempo in cui poveri disgraziati in fuga dalla violenza fisica e dalla miseria salivano su imbarcazioni fatiscenti, stipati come polli in batteria, riponendo le loro anime nelle mani degli dei del mare.

A volte gli dei erano benevoli (ma non sempre) e li accompagnavano dolcemente fino alle coste, rimettendoli al volere degli dei della terra. Generalmente, i ministri degli interni.

Alla fine anche questi dei si dimostravano sufficientemente generosi, non senza prima aver mostrato la faccia cattiva. I poveri disgraziati potevano scendere e toccare con i piedi il sacro suolo europeo a lungo agognato.

Questa cosa andò avanti per un bel pezzo, provocando una netta divisione fra chi avrebbe voluto respingere o quanto meno non accogliere i poveri disgraziati (sia perché poveri, sia perché disgraziati, e fra le loro disgrazie c’era quella di avere la pelle molto più scura della nostra), e coloro i quali consideravano questo atteggiamento inumano, schierandosi per la soluzione evangelica delle porte aperte a tutti. 


Pareva una di quelle situazioni in cui nessuno, da ambo le parti, ha interesse a veder finire l’andirivieni di motoscafi e barconi, navi delle Ong, motovedette: i difensori della linea dura, infatti, traevano da ogni arrivo di profughi nuova linfa elettorale, rastrellando i voti di chi quei poveri disgraziati dalla pelle nera proprio non sopportava di vedere in giro per le strade della propria città. D’altra parte, i fautori dell’accoglienza non si lasciavano scappare occasione per additare i loro avversari come razzisti, fascisti, disumani, egoisti, cercando con ciò di accaparrarsi i voti dei più sensibili alle disgrazie altrui.


Poi, un bel giorno fu deciso che questo surreale gioco dovesse avere termine.

Poiché il gioco aveva inizio in Libia (anche se il cammino dei profughi cominciava da molto più lontano), come prima mossa fu occupata militarmente la costa mediterranea della Libia. Può sembrare una soluzione ardita o dal sapore coloniale d’altri tempi, ma fu possibile con il consenso e l’impegno di tutti i paesi europei e anche dell’Onu, sulla base del fatto che non si poteva lasciare in preda al caos un paese la cui capitale, Tripoli, dista appena 300 chilometri da Lampedusa, cioè dall’Italia, cioè dall’Europa. Questo costituiva infatti una minaccia per l’intero continente. C’erano poi le ragioni umanitarie, poiché era ormai acclarato che in Libia esistevano campi di detenzione dove i profughi venivano trattenuti con la forza, nonché seviziati e in alcuni casi uccisi.

Dunque, come in altri casi della Storia, bisognava intervenire.

Una volta normalizzata, con la forza delle armi, la situazione in Libia, potè iniziare a svilupparsi il grande progetto “Nuova Europa”. Un fiume di soldi attraversò il Mediterraneo, fondi provenienti dai paesi europei ma anche da Russia, Cina e Stati Uniti. Ovviamente, poiché nessuno fa niente per niente, tutti i pozzi petroliferi libici furono posti sotto il controllo dei paesi che partecipavano all’azione umanitaria, con licenza di sfruttamento.

L’idea che animava il progetto era che se quello che i migranti cercavano in Europa erano lavoro, civiltà, sicurezza, welfare, queste cose si sarebbero potute creare direttamente in Libia, facendo del paese una sorta di protettorato europeo. Il fine giustificava i mezzi.


In pochi anni, grazie agli ingenti fondi impiegati, una parte del territorio libico fu completamente trasformata: furono costruite case, strade, scuole, ospedali, fabbriche, uffici. Su quelle stesse coste desolate, anche se bellissime, dalle quali prima partivano i barconi e spadroneggiavano gli scafisti, ora sorgevano confortevoli resort e villaggi turistici.

Nel giro di una decina d’anni, il tenore di vita degli abitanti della “Nuova Europa” crebbe tanto da eguagliare quello di una regione del Meridione d’Italia. Al punto che, a un certo momento, si assistette a una inversione del fenomeno migratorio: erano i disoccupati di Calabria e Basilicata a imbarcarsi, regolarmente stavolta, per andare a cercare lavoro nella nuova terra promessa: la Libia.

Essendo la “Nuova Europa” un protettorato, poi, i suoi cittadini potevano imbarcarsi su navi regolari ed entrare legalmente in Italia, cioè in Europa, per turismo o per lavoro, in base a opportuni visti di ingresso.

Ora nessuno parlava più di profughi e di immigrazione o si permetteva di fare affermazioni razzistiche idiote. La ragione aveva finalmente prevalso sull’irrazionalità.