lunedì 22 aprile 2019

Zitti, comincia er firme...

    

           Il ragazzino che era seduto al primo banco voltò lentamente la testa, c’aveva un ciuffo de capelli biondicci che crescevano disordinati come erbacce ma la nuca pulita, colla sfumatura alta. Accertatosi che lo stessi guardando tirò fuori dalla tasca un mazzetto di figurine tenute insieme coll'elastico e da sotto al banco me lo mostrò. Da quel suo gesto capii che durante la ricreazione avremmo fatto a scambio di doppioni. La maestra, che lo aveva proprio sotto gli occhi, se ne accorse e lo richiamò ad alta voce.
– Rosati! La lavagna sta da questa parte! – lo redarguì severa. Rosati ficcò di corsa le figurine in tasca e tornò a stare dritto, fissando la lavagna e fingendo di prestare attenzione alla lezione. La maestra guardò allora al resto della classe, per capire chi fosse il compare con il quale Rosati stava duettando, ma non riuscì a individuarlo. Per stavolta l’avevo scampata. Non sopportavo di essere ripreso dalla maestra. Lei era così diversa da mia madre. Aveva i fianchi larghi e il sedere prominente, che tendevano fino all'estremo il tessuto della gonna che indossava. Mia madre invece era magra e certe gonne le cadevano di dosso, specie nei periodi in cui non stava bene. Anche lei mi sgridava, quando facevo qualcosa che non avrei dovuto fare, ma da lei lo accettavo. Anche se mi dava uno schiaffo – una volta ho sentito il tocco duro di un anello sulle labbra –, non le portavo rancore. Era mia madre, l’unica che potesse farlo.
Alle dieci del mattino la classe aveva un odore tutto particolare. Non ci sono parole per definirlo. Non potrei dire: era l’odore delle cartelle di pelle o del sapone con il quale le nostre madri ci lavavano il viso. Era un odore che non esisteva in natura. L’odore di tutte le nostre case, di tutti i nostri vestiti, di tutte le nostre vite. Tutto messo insieme. E questo odore conteneva al tempo stesso l’aroma delle frittate di cipolle, delle minestre di broccoli, delle sigarette di papà, del profumo di mamma, della cera per i pavimenti, dei cappelli bagnati di pioggia, dei calzini sudati, dei sughi alla carne, dell'inchiostro dei libri, della muffa negli armadi. Ma alle dieci del mattino, a quell'odore ci eravamo abituati e non lo sentivamo più.
– Che ce l’hai Domenghini? – mi domandò frenetico Rosati alla ricreazione, stringendo in pugno il suo mazzo di figurine.
– No, – gli risposi – ma c’ho Corso.
– E che ce faccio? – mi fece eco Rosati – ce n’ho due de Corso... tiè, eccole qua... – e così facendo tirò fuori dal mucchio le due figurine con il calciatore dell'Inter.
– Se voi te posso dà Cinesinho – provai a tentarlo – è della Juventus. ‘O vedi, c’ha pure ‘na stella su ‘a maglia...
– Cinesinho nun ce l’ho... e che voi in cambio?
– Ce l’hai Nestor Combin?
– Chi? – domandò come irritato Rosati.
– Combin, quello der Torino che c’ha quella faccia strana...
– D’accordo, io te do Combin e tu me dai Cinesinho...
Ci scambiammo le figurine. Io misi quella di Combin nel mazzo, infilandola tra gli altri giocatori del Torino. Mi piaceva essere ordinato. Rosati piazzò la figurina che gli avevo dato in fondo a tutte, senza troppi riguardi. C’aveva fretta. Alle sue spalle era sopraggiunto Spagnoli e lo spingeva gridandogli in un orecchio.
– Oh, che ce l’hai Domenghini?!
Rosati alzò gli occhi al cielo, rimise l’elastico al mazzetto di figurine e infine rispose.
– Seee... magari. Se c’hai dieci lire comprate ‘n pacchetto, può darsi che ce ‘o trovi...
– A Rosa’, – gli rispose paraculo Spagnoli –, perché nun me le presti te, dieci lire?
– A Spagno’ – gli fece eco Rosati – perché nun te ne vai affanculo?
Rosati abitava a Pietralata, a casa sua non c’ero mai stato perché era troppo distante da dove abitavo io. Spagnoli invece stava di casa quasi di fronte alla scuola, alla fine di via Lanciani. Una volta che ero salito a casa sua, due cose mi avevano colpito: che sua madre era bionda e parlava con un accento strano, difatti era veneta, e che dalla finestra della sua camera si vedeva la linea ferroviaria con i treni che viaggiavano. Mi piacevano i treni, mio padre mi portava a vederli sfilare dal grande ponte che scavalcava la ferrovia. Di sera si vedevano le persone sedute dentro, che andavano chissà dove. Anche in posti lontani, come Milano, mi diceva mio padre. Mi piacevano perché erano di tutti e di nessuno, potevano portare anche me, mio padre, mia madre e mia sorella, che non avevamo una macchina, in qualsiasi città, anche a Napoli o a Milano. Mi rendevano uguale a quei bambini che a scuola raccontavano di viaggi fatti con l’auto di papà.
– E tu’ padre che macchina c’ha? – mi domandavano a volte gli altri ragazzini.
Ce l’avevano tutti, una macchina. Tutti o quasi. Allora spesso mentivo, dicevo: 
– La Cinquecento – per non esagerare con la bugia. 
Ma a quelli che mi conoscevano meglio dovevo dire la verità.
– Mi’ padre non ce l’ha la macchina. A che ce serve? Tanto con l’autobus e il treno andiamo dappertutto. 
Ma era un’altra bugia. Perché noi non andavamo mai da nessuna parte.

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