giovedì 5 dicembre 2019

Lettera di presentazione a una anonima utente di Facebook




        Ciao. Ti ringrazio per avermi accettato fra i tuoi amici. Anche se viviamo a poca distanza l’uno dall’altra, credo che non ci conosciamo, neanche di vista. Se ti avessi incontrata me ne ricorderei, sicuro. 
Forse ti sarai chiesta perché ti ho inviato la richiesta di amicizia. O forse no, sarai abituata a riceverne tante. Comunque sia voglio dirtelo in tutta sincerità, perché ti ho inviato la richiesta di amicizia. L’ho fatto dopo aver visitato il tuo profilo, aver letto i tuoi post (se tu avessi manifestato idee per le quali io provo repulsione mi sarei astenuto dal farlo, credimi), aver sorriso di alcuni tuoi pensieri, essermi emozionato di altri. Ma soprattutto, vedi, poiché non ti nascondo che sono arrivato a una età in cui non ci si può più permettere di tacere quello che si prova, perché il tempo per dirlo potrebbe esaurirsi in un lampo, io ti ho inviato la richiesta di amicizia perché quella che ho visto nelle immagini che, credo a proposito, hai caricato sul tuo profilo, mi piace davvero molto. E te lo voglio dire apertamente, voglio che tu lo sappia, che ti tolga ogni dubbio, che dietro la mia richiesta c’è il tuo bel viso sorridente, o le tue gambe esposte niente affatto per caso o il tuo seno posto in primo piano mai distrattamente, nonostante tu non sia una “pin-up” (oddio, ci sarà qualcuno ancora in grado di comprendere questo termine?). 
Il tuo esplicito messaggio per immagini merita un altrettanto esplicito messaggio verbale: ti ho chiesto l’amicizia perché mi piaci.
Mi piaci, ma stai tranquilla, non ti tempesterò di messaggi, non ti metterò in imbarazzo di fronte a tutti, non ti perseguiterò, non corri alcun rischio. Non sono, in questo, diverso dagli altri, quelli che ti chiedono l’amicizia per il mio stesso motivo, ma non lo dicono. Anzi, bisognerebbe guardarsi dagli insinceri e da coloro che non hanno il coraggio di dire ciò che pensano. 
Non è da stupidi, provare interesse o attrazione per qualcuno e non dirglielo? Io so solo che di occasioni mancate ne ho collezionate fin troppe, ora ho deciso di cambiare. Ti auguro una buona serata.

lunedì 16 settembre 2019

Echi




 C’è solo un modo di essere giovani. Tutto il resto è apparenza. 


Ricordo che a quel tempo scopavamo ascoltando Echoes dei Pink Floyd. Stessa durata, 23 minuti e 31 secondi, stesso andamento, stessa progressione. Noi allora ancora non lo sapevamo, che stavamo utilizzando uno dei capolavori assoluti della musica del Novecento per i nostri intermezzi sessuali, ma forse qualcosa dovevamo intuirlo. E il sesso era una cosa molto diversa da come lo intendiamo oggi.

Quel brano occupava un’intera facciata del disco, così non dovevi fare altro che lasciar scendere la puntina all’inizio dei solchi. Alla fine il piatto si fermava da solo. E si poteva riaccendere la luce.


Tutto iniziava con un “si”, che era una nota acuta emessa da un pianoforte e modificata, ma anche il termine che portavamo sulle labbra. Sì, lo voglio. Sì, prendimi, Sì, ti voglio. E così scendevamo insieme nei labirinti di caverne coralline dove ogni cosa è verde e sommersa e non riemergevamo fino a che non sentivamo pronunciare le parole così spalanco la finestra e grido il tuo nome al cielo.

Allora sapevamo che stava per finire, ma avevamo ancora qualche secondo per un ultimo bacio, un’ultima carezza, prima di essere presi nel vortice finale del canone eternamente ascendente, la scala suonata contemporaneamente su ottave differenti. E mentre una scala diminuiva di intensità, l’altra aumentava, proprio come succedeva ai nostri rispettivi sensi. Bach l’aveva insegnato ai Pink Floyd e i Pink Floyd l’avevano trasmesso a noi, ascoltatori inconsapevoli e amanti instancabili, che ce ne servivamo a modo nostro.


Un vento sonoro faceva tremare i nostri corpi nudi, come se davvero qualcuno avesse aperto le finestre e un tranquillo uragano stesse per travolgerci. A quel tempo ci sfuggiva il significato recondito di quei suoni e di quelle parole scandite in un idioma che non era il nostro, ma non il senso. Quello lo capivamo bene. Tu e io, noi e gli altri; un pianeta, miliardi di echi. Eravamo giovani, mica stupidi. 

(foto Compagnia di danza "Echoes", Pink Floyd Suites)

domenica 15 settembre 2019

Qual è il tuo modello?




        Sembra che nessun essere umano sia capace di crescere, svilupparsi, evolversi, senza un modello. La nostra esperienza evolutiva assomiglia a un pittore che non sappia ritrarre un corpo senza averlo di fronte. Per cui il corpo che dipingerà, sia pure con tutte le variazioni e le fantasie che vorrà aggiungervi, sarà pur sempre quello del modello o della modella che avrà osservato.

Nel corso dei secoli i modelli sono variati, come è ovvio, ma è solo nel Novecento, con l’esplosione della società dello spettacolo, che vi è stato un radicale cambiamento. I mezzi di comunicazione di massa hanno invaso il pianeta, risparmiando davvero poche isole in cui la presenza umana è quasi irrilevante.
Fotografia, cinema, televisione, stampa. I nostri modelli non sono più, soltanto, nostro padre e nostra madre, i nostri parenti, i nostri vicini di casa, quelli della nostra stessa classe sociale. Sono figure lontanissime, che pure appaiono vicine viste con il potente telescopio dei mass media. La straordinaria ricchezza di un residente a Beverly Hills si può quasi toccare con mano. Pare quasi un nostro intimo amico, l’attore di Hollywood che si è sottoposto a una serie di lifting per sembrare meno vecchio. E poi, ormai i tatuaggi ce li hanno tutti, loro, quelli che il mondo osserva, perché non dovrei averne uno anche io? E non hanno iniziato loro, quelli che non hanno mai avuto problemi di soldi, quelli che la vita sanno godersela, loro, gli attori, le attrici, i cantanti, non hanno iniziato loro a rompere il tabù del vincolo del matrimonio? A mettere al mondo figli senza sposarsi, a separarsi, a divorziare, una, due, tre volte... Eccola, la libertà, facciamolo anche noi! Mia nonna era nata all’inizio del secolo scorso, fece tanti figli e sopportò anche le corna, che stupida... Allora mi separo pure io, perché forse lei o lui mi ha tradito, anche se poi dovrò dormire in macchina perché l’equilibrio economico su cui si basava la nostra vita era appeso a un filo e lo abbiamo spezzato. 
Modelli, colpa dei modelli, datemi retta.

Mi piacerebbe tanto sapere se c’è un sociologo (o magari uno psicanalista) che abbia analizzato certi effetti sulla popolazione della tv in tutte le case. Ad esempio: chi è cresciuto guardando le gambe delle gemelle Kessler, e poi quelle di Raffaella Carrà, che idea si sarà formato della sua donna ideale? Non avrà cercato, una volta adulto, quel tipo di gambe in ogni donna che incontrava? Sembra una sciocchezza, ma non lo è. Prima del cinema e della tv, un ragazzino non aveva modo di guardare le gambe a una donna, se non in rari casi, e anche in quei casi si trattava pur sempre di gambe comuni, belle, brutte, lunghe, tozze... A vedere le ballerine a teatro ci andavano solo gli adulti. Vuoi mettere, invece, vedere continuamente belle gambe, gambe lunghe, ben fatte, agili, snelle? Ci cresci, che tu lo voglia o no diventano il “tuo” modello di gambe. Il “tuo” modello di donna. Solo che, poi, non tutte le donne hanno quelle gambe, e le nevrosi fioccano...



E che dire degli stupefacenti? Forse che il contadino o l’operaio dell’Ottocento ne facevano uso? Eppure potrei citare qui una serie interminabile di scrittori che hanno scritto i loro capolavori sotto l’effetto di droghe: Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmè facevano parte del Club des Hashischins e si provocavano allucinazioni fumando hashish, come credete siano nate le poesie de Les Fleurs du Mal, Les Paradis artificiels e Opium et haschisch? Pare che perfino William Shakespeare facesse uso di marijuana per comporre le sue opere. Charles Dickens fece uso di oppio, Victor Hugo di hashish e Robert Louis Stevenson di cocaina e morfina. Come credete che scrivesse, in soli sei giorni, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde? E dopo di loro tutti gli altri, scrittori, musicisti, attori... Ognuno prendendo a modello l’altro. Fino agli eccessi ancora biasimati del jazz e a quelli ormai tollerati delle rockstar. Sesso, droga e rock ‘n roll. Perché da una parte le droghe distruggono, dall’altra aiutano molto a creare. E allora, perché loro sì e io no? Droga di massa, mercato miliardario, affari d’oro per chi la commercia, che in fondo non deve essere poi tanto cattivo, se ci porta sotto casa qualcosa che vogliamo così tanto e gli “altri”, quelli buoni, invece non vogliono darci. 
Modelli, colpa dei modelli, datemi retta.

sabato 3 agosto 2019

Sono tornati




    




             Lo avevano atteso per secoli, e finalmente era ritornato. In modo un po’ casuale, gli era toccato di nascere da una donna africana, in una capanna di paglia e di fango. Quasi peggio della prima volta. Per di più, sua madre si era messa in testa di raggiungere l’Europa, insieme con quello che tutti credevano essere suo padre. Si erano messi in cammino, per settimane e settimane, che Lui aveva solo tre mesi. Suo padre era stato torturato e picchiato. Sua madre aveva rischiato di essere stuprata, fortuna che qualcuno da lassù doveva aver evitato che succedesse il peggio. In ogni modo, erano arrivati dove la terra finisce e inizia il mare. Di là del mare c’era l’Europa, con le case, i negozi, gli ospedali, i luna park e i teatri. Lo sapeva solo sua madre, che suo figlio era Lui, come solo le madri possono saperlo. Neanche suo padre, non ancora.
Provarono ad attraversare il mare, ma furono respinti prima dalle onde, poi dagli uomini. Provarono e riprovarono, finché non ci riuscirono; furono raccolti da una nave, sbarcati su un’isola dell’Italia. Salvi.
In un piccolo paese italiano, suo padre trovò un lavoro, dieci ore al giorno per pochi soldi; sua madre si occupò di lui. Crebbe, divenne un ragazzo, poi un uomo. Non c’era fretta, erano trascorsi secoli.
Finalmente venne il tempo di iniziare l’opera per la quale era stato mandato sulla Terra. Stavolta, però, aveva bisogno dell’aiuto delle persone giuste. E stavolta aveva la possibilità di riportare sulla Terra chi sulla Terra non c’era più.
Uno che gli era piaciuto, ultimamente, si chiamava Ernesto. Era un argentino, ma aveva vissuto molto a Cuba ed era morto in Bolivia. Lo richiamò in vita come solo lui avrebbe potuto fare.
– Vieni Ernesto, o preferisci che ti chiami Che?
– Come preferisci, cioè, come ti viene meglio, cioè...
– Vabbe’, ho capito, ti chiamo Che. Ricordati il nostro patto...
– Quale patto?
– Te lo sei già dimenticato? Tu ritorni sulla Terra purché non ammazzi nessuno. Stavolta si fa come dico io, altrimenti ti rispedisco subito da dove sei venuto.
– Giuro. Neanche una mosca nera e fascista.
– Bene, Che. Lo sai perché ti ho voluto con me, in questa nuova avventura sulla Terra...
– Lo so. Devo occuparmi dei problemi materiali degli esseri umani, mentre tu sei alle prese con quelli dello spirito.
– Giusto. Fai conto che questo sia un governo, tu saresti il ministro della sanità, ma anche quello dell’istruzione e della giustizia...
– Tanto, mica sono un comune mortale, posso ricoprire quanti incarichi voglio...
– Non montarti la testa, ora, non sei onnipotente...
– Onnipotente no, superdotato sì. Non vedo l’ora di cominciare.
– Non devi avere fretta, non lo sai che per noi che veniamo dal Cielo, un secolo dura poco più di un giorno?
– Non ho ancora capito cosa siamo venuti a fare.
– Come? A completare l’opera, tu e io.
– Che strana coppia...! E dire che quando ero in vita mi sarebbe piaciuto fare miracoli, ma...
– Quelli lasciali a me. Vorrei che ti concentrassi sulla soluzione dei problemi pratici. Ad esempio: facciamo in modo che tutti gli uomini della Terra abbiano cibo, acqua, medicine per curarsi.
– In questo sono la persona giusta. Sono un medico, lo sai...
– Vedi, Che, mi sono dovuto ricredere. Snobbavo la tua idea di realizzare il paradiso sulla Terra, per me il paradiso era uno soltanto, quello del regno dei cieli. Poi mi sono detto: perché gli uomini devono soffrire in vita per gioire da morti?
– La morte dura in eterno, la vita non è che un passaggio...
– Che, hai cambiato idea anche tu, da quando sei morto?
– Vedo la cosa da un altro punto di osservazione...
– Allora mi sono detto: devo tornare sulla Terra per trasformarla dall’inferno che è sempre stata a luogo di delizie.
– E hai scelto proprio me come aiutante...
– C’è un altro motivo che mi ha spinto a sceglierti...
– Quale, Jesús?
– Quella foto, che ti hanno scattato da morto, sopra quel tavolo di metallo, coi militari attorno. Mi sono rivisto come in quel dipinto, quello di Mantegna: il Cristo Morto. Mi sono detto: ma quello sono io, secoli dopo. Invece no, eri tu.
– Tutti e due siamo morti ammazzati, Jesús. A me però hanno risparmiato la croce.
– Più grande il supplizio, maggiore la gloria.
– E ora eccoci qua, due bei ragazzi, con i capelli un po’ lunghi, la barba, come tanti altri.
– Quanti hanno voluto imitare le nostre sembianze, qualche decennio fa! Non avrei mai pensato di diventare una moda... E tu, Che?
– Torno e cosa scopro? Che sono stati capaci di fare magliette con la mia faccia stampata sopra. Accidenti, per anni ho continuato a vivere sulle t-shirt... Ora però sono tornato per davvero.
– Siamo tornati... E per portare a termine la rivoluzione, giacché ho capito che gli uomini, da soli, non ci riescono.
– Sicuro, la revolución...
– La rivoluzione dell’amore, Che, della pace universale, dell’armonia con il creato e con il Creatore, della giustizia e dell’abbondanza per tutti gli uomini.
– La rivoluzione proletaria, cioè...
– Che... ricorda i nostri patti. Si fa come dico io. Vedrai che la mia rivoluzione sarà anche la tua rivoluzione...
– D’accordo, d’accordo, Jesúscristo... unto di olii e di saggezza. Allora, da dove cominciamo? Dalle banche? Dalle casseforti? Dalle fabbriche?
– Dal cuore dell’uomo, Che.

domenica 21 luglio 2019

Controcultura del 1969



     

   

    Se anche voi vi state chiedendo perché dopo quel 20 luglio 1969 nessun uomo sia più andato sulla Luna allora siete sulla strada giusta per capire che il governo degli Stati Uniti d’America non aveva nessun interesse astrofisico né tanto meno umanitario in quella missione in sostanza non gliene fregava nulla del grande passo dell’umanità di Armstrong e forse neanche ad Armstrong stesso forse l’unico scopo era piantare quella cazzo di bandiera a stelle e strisce anche lassù fortuna che dalla Terra non si vede a occhio nudo altrimenti ci girerebbero i coglioni ogni volta che di notte alziamo gli occhi al cielo perché mentre noi massa venivamo distratti dalle voci di Houston e dalle immagini grigie di due pupazzoni che saltellavano sulla sabbia della crosta lunare quegli stessi americani in Vietnam bruciavano i vietcong e i loro bambini con il napalm e Nixon come Giano bifronte annunciava ritiri delle truppe mentre cercava di estendere il conflitto in Laos e Cambogia non potendo attaccare direttamente l’URSS gli si faceva capire chi comanda così deboli coi forti forti con i deboli la grande menzogna dell’incidente del Tonchino e quindi 25 miliardi di dollari solo per mandare un messaggio ai sovietici in cui gli yankees scrivevano questo è per lo Sputnik per Jurij Gagarin e anche per la cagnetta Laika che Dio l’abbia in gloria sporchi comunisti la Luna non sarà mai rossa cosa sono 25 miliardi di dollari se in dieci anni di guerra in Vietnam ne abbiamo spesi 250 cosa sono migliaia di morti però bisognava distogliere il mondo da quelle immagini che quei fottuti fotografi scattavano in Vietnam i bambini che fuggivano nudi dai bombardamenti le migliaia che manifestavano a Washington contro la guerra John Lennon che cantava “give peace a change” non preoccuparti verrà anche il tuo turno abbiamo un metodo infallibile per uccidere i presidenti così come i cantanti che ci stanno sulle palle l’assassinio per mano di un folle fa parte della nostra idea di democrazia e allora ha ragione chi dice che la missione lunare fu tutta una messa in scena anche se è ingenuo pensare che tutto fu filmato in uno studio di Hollywood magari da Stanley Kubrik no stavolta si scelse un set originale ci si andò per davvero sulla Luna per girare il più grande film propagandistico della storia americana e non solo d’altra parte non c’è da stupirsi che il razzo Saturno fu costruito da uno scienziato tedesco nazista chissà se mai redento davvero in fondo i calcoli sono gli stessi sia che si voglia distruggere sia che si voglia conquistare non c’è differenza signori miei è la scienza al servizio del potere che ci piaccia o no era il 1969 e succedevano tante cose tutte insieme ma noi eravamo bambini e queste cose allora non potevamo capirle.

Foto Archivio Peter Arnett, sbarco di marines americani sulle spiagge del Vietnam
 

giovedì 4 luglio 2019

Dialogo con un morto




Non so ancora se il seguente dialogo io l’abbia sognato, in uno di quei sogni lunghissimi, il più lungo che io abbia mai fatto, o se l’abbia invece immaginato da sveglio. So che lui era di fronte a me, seduto su una sedia - in controluce potevo appena indovinare il suo volto - e che gli ho parlato. Ho parlato a un morto.




          Cesare Pavese fumava la pipa. La fumava anche nel mio sogno, la teneva in una mano. L’altra era appoggiata su una gamba. Sembrava sereno, come se avesse dimenticato, ormai, tutto quello che aveva scritto e pensato e sofferto. In lui non c’era più traccia del tumulto di un tempo.

Stavamo in silenzio, poi a un tratto mi domandò:

– Raccontami tu qualcosa. Io non ho più niente da raccontare. Ho già scritto tutto.

– Cosa vuoi che ti dica? – gli risposi.

– Raccontami tutto quello che è successo dopo.

Dopo cosa? – replicai.

– Dopo che me ne sono andato, – fece lui.

E quasi scomparve nella nuvola di fumo grigio sbuffata dalla pipa. Avevo preso a sudare, come si suda quando si sogna di essere inseguiti o di cadere nel vuoto. Un sudore d’ansia. Perché aveva scelto proprio me per sapere cosa era accaduto nel mondo dopo che lui lo aveva volontariamente abbandonato? Era stato forse preso da un rimorso? Avrebbe voluto, da morto, ritornare a vivere, sull’unica terra in cui esiste la vita come la conosciamo? Certo, io avevo letto molto di tutto ciò che aveva scritto quando era in vita, non per questo potevo essere considerato il suo maggiore conoscitore. Allora, perché proprio io?

Smisi di farmi domande e cominciai a ricordare gli avvenimenti seguiti a quel 1950. Doveva essere proprio un sogno, perché la memoria sembrava procedere secondo un tracciato che non corrispondeva alle mie idee, ma a quelle dell’uomo che avevo di fronte. Un uomo morto da oltre sessant’anni.

Il primo fatto che mi venne in mente fu la poesia della beat generation.

– I poeti americani, – dissi – li ha scoperti per noi Fernanda Pivano, lo sai?

– Era tanto carina, Nanda, e giovane. Mi piaceva il suo sorriso, e come strizzava gli occhi. E così gli ho attaccato la malattia dell’America...

– Direi proprio di sì. Lei c’è andata, in America, c’è rimasta per un pezzo. Li ha conosciuti quasi tutti, i poeti americani. Ah, ti sarebbero piaciuti un sacco! Ti sarebbero piaciuti anche se scrivevano in un modo diverso dal tuo. Ma forse anche tu, col tempo, avresti cambiato il tuo stile.

– Forse, chissà... – mi rispose serio. – Se solo fossi sopravvissuto...

– Stavano per arrivare un mucchio di cose nuove, amico mio, – gli dissi – il mondo stava per cambiare completamente e come mai prima. Te ne sei andato proprio sul più bello. Hai passato una guerra terribile, e non sei riuscito a superare... – e qui mi fermai.

Non avevo il coraggio di dirgli che secondo me s’era ucciso per l’ennesima delusione amorosa.

– ... il rifiuto di una donna? – completò lui la mia frase.

– Non lo so, – balbettai – mi pareva che... a leggere quanto scrivevi prima di...

Tirò un’altra boccata di fumo e scomparve di nuovo in una nebbia grigia. Temetti di non rivederlo più. Invece dopo un attimo era ancora lì, con le gambe accavallate, fermo nella tranquillità che è propria solo di chi non viva.

 – E la Nanda, poi, si è sposata?

Che mi avrebbe fatto questa domanda ne ero certo. Si capiva che gli importava di più dei poeti della beat generation.

– No, mai, – gli risposi. – Altro non chiedermi, non saprei risponderti.

– E poi, e poi? – mi incalzò.

– Poi venne un anno di cui ci ricordiamo ancora oggi, anche se ne è passato di tempo. L’anno in cui nacquero i giovani, in cui diventarono una popolazione a sé. Prima, se non eri più un ragazzo eri un adulto. Ora, in mezzo, fra ragazzi e adulti, c’erano i giovani. Molti, poi, avrebbero cercato di restare in questa età, in questa popolazione, molto più a lungo di quanto ragionevolmente concesso. Ma allora eravamo nel 1968 e i giovani, costituitisi in categoria sociale, si scoprivano non rappresentati nella società e reclamavano il loro diritto a decidere. Per se stessi, per il loro futuro. Insomma, ci fu la rivolta studentesca, in America, in Francia e anche in Italia. Si occuparono le scuole e le università. Si manifestò violentemente contro lo stato e ci furono duri scontri con la polizia e i carabinieri. Ragazzi coi libri da una parte, che tiravano sampietrini, e ragazzi in divisa dall’altra, che sparavano lacrimogeni e davano manganellate.

– Che cosa triste... – commentò lui storcendo un poco la bocca. –  E poi, credevo che i manganelli fossero spariti con il fascismo.

– Troppe cose non sono finite con il fascismo, – risposi amaro.

– E gli intellettuali, cosa dicevano?

– Stavano un po’ di là e un po’ di qua... C’era chi si sentiva spiazzato, confuso. Era una rivolta contro la società borghese fatta dai figli dei borghesi, mentre i figli dei contadini, dei proletari, i poliziotti, erano mandati a difenderla.

– Sei confuso e stai confondendo anche me... – disse poi aspirando un’altra tirata dalla pipa.

– Forse perché la polizia e i carabinieri difendono qualsiasi cosa si dica loro di difendere. Ubbidiscono agli ordini.

– Oppure perché quei giovani poliziotti aspiravano a diventare, anche loro, dei borghesi. Così difendevano la classe a cui ancora non appartenevano, ma alla quale miravano, – fu la sua interpretazione.

– A qualcuno, però, fra gli intellettuali, quelle teste di poliziotti spaccate, col sangue che colava giù per il viso, facevano pena, o simpatia. Pasolini, ad esempio.

– Uno scrittore?

– Uno che è stato molte cose, ma soprattutto un poeta. Ah, se ti fossi fermato ancora per un po’, chissà cosa vi sareste detti, voi due...

– Tu che lo hai conosciuto, credi che saremmo andati d’accordo?

– Non lo so. Non hai un carattere facile, tu. E nemmeno lui. Però non litigava mai con nessuno, era un uomo pacifico. Poi lo hanno ammazzato.

– Come succede spesso ai miti... – disse sicuro.

– E a chi accetta il proprio destino, – aggiunsi.

– Nessuno l’accetta... Non hai letto “Schiuma d’onda”?

– Il tuo racconto dei “Dialoghetti”?

– Saffo risponde a Britomarti, la ninfa: “non l’accetto, lo sono”. Così, lui era il suo destino.

– Proprio come lo eri tu... – rispondo.

Lo vedo portarsi la pipa alla bocca e tirare più forte, quindi emettere una nuvola di fumo che sembra allargarsi a dismisura, fino a farlo scomparire del tutto.

Stavolta, però, quando il fumo si dirada Cesare Pavese è scomparso.


Sono rimasto male, perché avrei voluto dirgli ancora qualcosa: che aveva ragione sull’URSS, quando scriveva sull'Unità come “compagno di strada”, e che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche era finita e si era eclissato anche il socialismo e con essi era finito, in anticipo, il Novecento.
 

Calcio e libido, cocktail perfetto



 

           Parlo da uomo, si capisce, anche se cerco di tenere fuori, per quanto possibile, i condizionamenti dell’educazione, della cultura, dell’appartenenza a un sesso invece che a un altro. Anche se cerco di denudare l’istinto e di ragionare solo con quello.

Penso, chissà quanti uomini avranno guardato per la prima volta, in assoluto o nella loro vita recente, un incontro di calcio fra donne, seguendo il Mondiale femminile. Fra donne che sanno giocare a calcio come gli uomini. È capitato anche a me, che finora avevo visto solo qualche azione di sfuggita di campionati regionali. 
Ora invece, una partita intera. 
Ecco che allora, da uomo che cerca di scrollarsi di dosso le costruzioni culturali, non ho potuto fare a meno di guardare quelle immagini e avvertire prepotentemente un elemento nuovo, che in qualche modo disturbava la visione del gioco. 
L’attrazione sessuale. 
Le calciatrici sono giovani, atletiche, agili. Anche se compostissime nelle loro divise, appositamente studiate per risultare il meno possibile erotizzanti, quando le inquadrano in primo piano, con i capelli bagnati di sudore appiccicati alla fronte, tu non puoi fare a meno di immaginarle in altre situazioni in cui la loro femminilità viene fuori in tutta la sua dirompente portata.

E questo non perché ragioni da maschio, ma perché sei naturalmente uomo. E ti piacciono le gambe delle donne, se sono ben fatte. Ti piacciono gli occhi delle donne, se hanno qualcosa di languido o un colore che assomiglia all'acqua di mare. Ti piace la pelle delle donne, anche quando è madida di sudore.

Un’esperienza di calcio e sesso, anche se involontario, del tutto inedita per me.

Chissà se alle donne capita la stessa cosa, vedendo giocare gli uomini.

domenica 16 giugno 2019

Altri buonisti




Non frequento le chiese, anche se il verbo di Cristo mi affascina da sempre. 
La parole sono quelle dell’Apocalisse di Giovanni, parole che non hanno mai smesso di rivelarsi attuali.

La foto è di un grande Sebastião Salgado.


“Tiepidi, siamo noi che togliamo la forza irrompente dell'Evangelo per scappare dal conflitto che ci mette paura. Il tiepido riduce l'Evangelo a rito, morale, dottrina, religione accondiscendente, così da evitare ogni persecuzione.  

Siamo perseguitati a causa dell'impegno sul pane per tutti, sul servizio agli altri e specialmente ai più poveri, sul perdono ai nemici, sulla non violenza e sulla croce, garanzia di vittoria per tutti i crocifissi della storia”.



Apocalisse 3,14-22




domenica 9 giugno 2019

Tutto d'un fiato




 

Mi sveglio sempre alle sette d’estate fa ancora fresco posso respirare dalla finestra aperta prima di fare la doccia la barba la colazione vestirmi indossare la camicia la cravatta la giacca e dopo prendere l’ascensore scendere fino al garage entrare nella macchina risalire la rampa immettermi sulla strada incrociare altre auto tenere i finestrini chiusi accendere il climatizzatore automatico con la temperatura impostata a 23 gradi guardarmi intorno quando sono fermo al semaforo fare finta di niente se l’auto accanto è guidata da una donna bella con quel poco di ombretto quel poco di rossetto quel poco di sesso consumato nella notte ancora fra i capelli le braccia tese sul volante il seno fra le braccia pochi secondi si riparte di solito percorro il tragitto fra casa e ufficio in quaranta minuti ma d’estate può capitare che ne impieghi solo venti dovrebbero mandare le persone in ferie più spesso le scuole aprirle alle dieci del mattino altrimenti non ti spieghi come mai solo quando le scuole sono chiuse e le persone sono in ferie le strade sembrano avere le dimensioni giuste per le auto che le percorrono la mia è fatta di una via crucis di semafori tutti rossi prima non facevo in tempo a mettere la terza che già dovevo fermarmi per fortuna ora ho l’auto con il cambio automatico fanculo la frizione la prima la seconda la terza fanculo le marce marciscano all’inferno mi si consumavano i tacchi delle scarpe e il tappetino di gomma perché non ci ho pensato prima a farmi un’auto col cambio automatico così posso ascoltare meglio miles davis alle otto del mattino tengo sempre un po’ di musica jazz in auto john coltrane ad esempio o keith jarrett oppure diana krall che poi quando fuori aumenta il rumore io aumento il volume della musica fanculo questa città se potessi farei un tunnel da casa all’ufficio da garage a garage ecco di nuovo una rampa sono arrivato ho il posto riservato sottoterra dove non battono i raggi del sole a quest’ora devono essere già robusti ma io prendo l’ascensore e salgo al quarto piano dove c’è il mio ufficio peccato che il climatizzatore sia impostato su 25 gradi in macchina stavo più fresco dico al collega che sale con me ci vediamo alla mensa a pranzo se non decido di rimanere in stanza a mangiare uno yogurt magari o mi bloccano in una riunione non so perché le riunioni finiscono sempre tardi non vedo l’ora che arrivino le cinque allora me ne riscenderò in ascensore fino al garage entrerò in auto risalirò la rampa controllerò che il climatizzatore sia ancora impostato su 23 gradi mi balenerà il pensiero che fuori ce ne saranno 33 o 34 fanculo l’estate quando si lavora non dovrebbero esistere il lavoro e l’estate insieme o l’uno o l’altra invece no così me ne torno a casa semaforo dopo semaforo le donne nelle auto non hanno la stessa aria riposata della mattina nessuna luce di amplessi negli occhi il lavoro spegne nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo di dire signori ora vi rivelo una verità che nessuno vi ha mai rivelato il lavoro è contro natura avete mai visto un canarino che lavora? un pesce rosso che lavora? una scimmia che lavora? l’unica attività ammessa è procurarsi il cibo tutto il resto è una malattia mentale e grave d’accordo sono malato anche io che me ne torno a casa con la mia auto col cambio automatico il climatizzatore a 23 gradi quando fuori 34 e poi scendo la rampa entro nel garage spengo il motore chiudo la portiera sono ancora vestito come stamattina alle otto camicia cravatta giacca prendo l’ascensore sono due piani entro in casa il climatizzatore è già acceso da un’ora basta un cazzo di timer da due soldi ed entri in una casa fresca fanculo l’estate il sudore le zanzare le magliette con le macchie scure sotto le ascelle ora finalmente posso togliermi i vestiti entrare nella doccia anche oggi è andata un altro giorno d’estate è passato fra poco arriverà il buio la notte allora infilerò un paio di pantaloni di cotone leggero una maglietta blu un paio di mocassini marroni e uscirò finalmente a fare una passeggiata.
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lunedì 22 aprile 2019

Zitti, comincia er firme...

    

           Il ragazzino che era seduto al primo banco voltò lentamente la testa, c’aveva un ciuffo de capelli biondicci che crescevano disordinati come erbacce ma la nuca pulita, colla sfumatura alta. Accertatosi che lo stessi guardando tirò fuori dalla tasca un mazzetto di figurine tenute insieme coll'elastico e da sotto al banco me lo mostrò. Da quel suo gesto capii che durante la ricreazione avremmo fatto a scambio di doppioni. La maestra, che lo aveva proprio sotto gli occhi, se ne accorse e lo richiamò ad alta voce.
– Rosati! La lavagna sta da questa parte! – lo redarguì severa. Rosati ficcò di corsa le figurine in tasca e tornò a stare dritto, fissando la lavagna e fingendo di prestare attenzione alla lezione. La maestra guardò allora al resto della classe, per capire chi fosse il compare con il quale Rosati stava duettando, ma non riuscì a individuarlo. Per stavolta l’avevo scampata. Non sopportavo di essere ripreso dalla maestra. Lei era così diversa da mia madre. Aveva i fianchi larghi e il sedere prominente, che tendevano fino all'estremo il tessuto della gonna che indossava. Mia madre invece era magra e certe gonne le cadevano di dosso, specie nei periodi in cui non stava bene. Anche lei mi sgridava, quando facevo qualcosa che non avrei dovuto fare, ma da lei lo accettavo. Anche se mi dava uno schiaffo – una volta ho sentito il tocco duro di un anello sulle labbra –, non le portavo rancore. Era mia madre, l’unica che potesse farlo.
Alle dieci del mattino la classe aveva un odore tutto particolare. Non ci sono parole per definirlo. Non potrei dire: era l’odore delle cartelle di pelle o del sapone con il quale le nostre madri ci lavavano il viso. Era un odore che non esisteva in natura. L’odore di tutte le nostre case, di tutti i nostri vestiti, di tutte le nostre vite. Tutto messo insieme. E questo odore conteneva al tempo stesso l’aroma delle frittate di cipolle, delle minestre di broccoli, delle sigarette di papà, del profumo di mamma, della cera per i pavimenti, dei cappelli bagnati di pioggia, dei calzini sudati, dei sughi alla carne, dell'inchiostro dei libri, della muffa negli armadi. Ma alle dieci del mattino, a quell'odore ci eravamo abituati e non lo sentivamo più.
– Che ce l’hai Domenghini? – mi domandò frenetico Rosati alla ricreazione, stringendo in pugno il suo mazzo di figurine.
– No, – gli risposi – ma c’ho Corso.
– E che ce faccio? – mi fece eco Rosati – ce n’ho due de Corso... tiè, eccole qua... – e così facendo tirò fuori dal mucchio le due figurine con il calciatore dell'Inter.
– Se voi te posso dà Cinesinho – provai a tentarlo – è della Juventus. ‘O vedi, c’ha pure ‘na stella su ‘a maglia...
– Cinesinho nun ce l’ho... e che voi in cambio?
– Ce l’hai Nestor Combin?
– Chi? – domandò come irritato Rosati.
– Combin, quello der Torino che c’ha quella faccia strana...
– D’accordo, io te do Combin e tu me dai Cinesinho...
Ci scambiammo le figurine. Io misi quella di Combin nel mazzo, infilandola tra gli altri giocatori del Torino. Mi piaceva essere ordinato. Rosati piazzò la figurina che gli avevo dato in fondo a tutte, senza troppi riguardi. C’aveva fretta. Alle sue spalle era sopraggiunto Spagnoli e lo spingeva gridandogli in un orecchio.
– Oh, che ce l’hai Domenghini?!
Rosati alzò gli occhi al cielo, rimise l’elastico al mazzetto di figurine e infine rispose.
– Seee... magari. Se c’hai dieci lire comprate ‘n pacchetto, può darsi che ce ‘o trovi...
– A Rosa’, – gli rispose paraculo Spagnoli –, perché nun me le presti te, dieci lire?
– A Spagno’ – gli fece eco Rosati – perché nun te ne vai affanculo?
Rosati abitava a Pietralata, a casa sua non c’ero mai stato perché era troppo distante da dove abitavo io. Spagnoli invece stava di casa quasi di fronte alla scuola, alla fine di via Lanciani. Una volta che ero salito a casa sua, due cose mi avevano colpito: che sua madre era bionda e parlava con un accento strano, difatti era veneta, e che dalla finestra della sua camera si vedeva la linea ferroviaria con i treni che viaggiavano. Mi piacevano i treni, mio padre mi portava a vederli sfilare dal grande ponte che scavalcava la ferrovia. Di sera si vedevano le persone sedute dentro, che andavano chissà dove. Anche in posti lontani, come Milano, mi diceva mio padre. Mi piacevano perché erano di tutti e di nessuno, potevano portare anche me, mio padre, mia madre e mia sorella, che non avevamo una macchina, in qualsiasi città, anche a Napoli o a Milano. Mi rendevano uguale a quei bambini che a scuola raccontavano di viaggi fatti con l’auto di papà.
– E tu’ padre che macchina c’ha? – mi domandavano a volte gli altri ragazzini.
Ce l’avevano tutti, una macchina. Tutti o quasi. Allora spesso mentivo, dicevo: 
– La Cinquecento – per non esagerare con la bugia. 
Ma a quelli che mi conoscevano meglio dovevo dire la verità.
– Mi’ padre non ce l’ha la macchina. A che ce serve? Tanto con l’autobus e il treno andiamo dappertutto. 
Ma era un’altra bugia. Perché noi non andavamo mai da nessuna parte.

domenica 21 aprile 2019

Frammenti di discorsi #4

In a train, Henri Cartier-Bresson, 1975

Agosto 1976
Era di moda fumarsi una marlboro, dopo aver fatto l’amore. Così facevano, allora, un ragazzo e una ragazza in un appartamento del quartiere Trieste di proprietà dei genitori di uno di essi, in assenza di questi, sdraiati sul letto matrimoniale, un filo di sudore sulla pelle, le finestre aperte con le tapparelle abbassate.
– Dici che stavolta ce la rischiamo? – fece il ragazzo aspirando una boccata di fumo.
– Può essere... non ci sei stato attento come fai sempre, – rispose la ragazza tenendo la sigaretta fra l’indice e il medio della mano.
– Pensa se ci nasce un figlio... – aggiunse lui.
– No, meglio che non ci penso... – ribattè lei.
– Se nasce femmina mi piacerebbe chiamarla Vittoria. Perché deve essere una che vince, una forte, una roccia, – proseguì il gioco il ragazzo.
– Sono d’accordo... ma se nasce maschio lo chiamiamo Giorgio, – sentenziò la ragazza sbuffando fumo dalle narici.
– Come Almirante?
­– Seee... Come Chinaglia.

domenica 14 aprile 2019

Piccola storia crudele del capitalismo (americano)



     
Dunque, per diventare quello che è oggi, il mondo inizia a cambiare alla fine del XV secolo. Navigatori europei scoprono nuove terre al di là dell’Oceano; non sono le Indie, come si credeva, ma un altro continente, cui viene dato il nome di America.
I navigatori sono esseri romantici, si sa, mossi nient’altro che dalla sete di scoperta e dall’ambizione della fama imperitura. Ma i monarchi, i capi militari, i mercanti, no. A loro delle nuove scoperte non interessano la geografia, le culture antiche, la flora e la fauna. No, a loro interessano esclusivamente le ricchezze. Oro, argento, rame. E la terra, come qualcosa da possedere e da sfruttare.

Dunque all’inizio il nuovo continente viene semplicemente sfruttato: le navi partono dalla Spagna, arrivano in America, fanno il carico di metalli preziosi e ripartono per tornare in Spagna. Se non incontrano i pirati, che di solito sono inglesi e si comportano un po’ come gli avvoltoi con le prede uccise e smembrate dai grossi felini. Vanno a rubare in casa dei ladri, insomma.
Spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, vanno in America e si comportano come se fosse una terra disabitata. “L’abbiamo scoperta noi, è nostra!”. In realtà sono degli invasori, ma guai a dirglielo. Quella terra, infatti, è di qualcun altro, altri popoli che la abitano da secoli e secoli, ma gli invasori fanno finta di niente. “Davvero ci sono gli Incas?”. “Davvero ci sono i Pellerossa?”. Prima che il resto del mondo si accorga che quelle terre sono abitate, cercano di sterminare tutti i nativi. Ci riescono in parte, soprattutto nella parte a sud. Gli indigeni della parte a nord sono più numerosi e combattivi, e quando si accorgono che gli ospiti venuti dall’Oceano non sono affatto gentili né educati, anzi sono piuttosto rozzi e crudeli e ingordi, cercano di rendere loro pan per focaccia. Però hanno solo archi e frecce mentre quegli altri fucili e pistole, e la lotta non è pari. Si sa come andrà a finire.

Di tutte le razze, ops!, le etnie in cui si divide il genere umano, quella di pelle bianca si è finora dimostrata essere la più ostinata, vorace, perfidamente intelligente e brutalmente violenta. Certo, violente lo sono state anche le altre, ma gli uomini di pelle bianca hanno dato prova di saper essere brutali e al tempo stesso civilizzati, come se le due cose non fossero naturalmente in contrasto fra loro. Ragione per cui, per una incomprensibile legge di natura, l’uomo bianco finora ha prevalso sugli altri. Soprattutto sugli uomini dalla pelle rossa e nera.

Dunque, dicevamo che in principio gli europei, che hanno scoperto l’America, ne sfruttano le ricchezze. Ma in numero sempre maggiore vi si stabiliscono. Quelli che sono andati a stare nella parte a nord a un certo punto sono così tanti che iniziano a sentirsi anche loro sfruttati dalla madrepatria e vorrebbero staccarsi dalla Gran Bretagna. Per questo fanno una guerra d’indipendenza, e la vincono, perché sono più determinati di quelli che sono rimasti in Europa, e creano uno stato, anzi, tanti stati, ogni anno ce n’è uno che vuole aggiungersi all’Unione. Tanti stati, tanti uomini, tutti di pelle bianca. Non c’è posto per gli uomini dalla pelle rossa, che arditamente reclamano le loro terre, i loro fiumi, il loro bestiame. Devono essere sterminati e i superstiti rinchiusi in riserve. C’è posto, invece, e tanto, per gli uomini di pelle nera, che notoriamente, e oziosamente, vivono in Africa.
Europa, America, Africa. Disponendo questi tre continenti su un piano e collegandoli fra loro con delle linee otterremmo un triangolo.

Ora pensate un po’ voi: a questi furbi, ingegnosi, laboriosi, ma parimenti crudeli e spietati, uomini bianchi d’America, non basta arricchirsi coltivando le terre che erano dei Sioux e degli Apache, commerciando in pelli di bisonte o di castoro, estraendo carbone dalle miniere, per di più sfruttando anche il lavoro dei minatori.
Perché essere solo ricchi quando si può essere ancora più ricchi? Loro forse ancora non lo sanno, ma stanno agendo in nome di un fato che deve compiersi: stanno accumulando ricchezze, tante ricchezze, molte di più di quanto un uomo possa godere in tutta la vita, ma non per questo inutili. Serviranno a generare un mostro che dominerà i secoli a venire. Ma andiamo per gradi...

Siamo più o meno nel Settecento, il secolo dei lumi in Francia, ma ci sono uomini che vivono nelle tenebre dell’avidità; questi uomini, avventurieri e mercanti, viaggiando per commerci lungo le coste dell’Africa, un bel giorno hanno un’idea. Gli uomini di pelle bianca hanno sempre grandi idee: la stampa, il telescopio, il pantografo... Ma questa è un’idea che farà arricchire tutti, europei e americani (attenzione: quando si dice che tutti si arricchiscono non è proprio così... qualcuno che ci perde, e anche tanto, c’è sempre...). C’è qualcosa che vale ancora di più dell’avorio che razziano in Africa per rivenderlo in Europa, qualcosa che vale ancora di più dell’oro che rubano in terra straniera. Le loro navi hanno stive capienti, e allora l’idea è di riempirle di negri. Uomini, donne, bambini. Non fa differenza. L’America, per crescere e diventare ancora più ricca (non si tratta di sopravvivenza, si badi bene, loro ancora non lo sanno ma la storia gli ha affidato il compito di dare alla luce una creatura di dimensioni smisurate e di infinita potenza) ha bisogno di braccia, di forza lavoro, che non costi nulla o quasi.
Come hanno fatto gli Egizi a costruire le piramidi? Ecco, loro aiuteranno gli americani a costruire un’enorme piramide fatta di attività economiche, di denaro, di interessi, di soprusi, di sangue, a costruirla come fecero gli Egizi tremila anni prima: servendosi di milioni di schiavi.

Loro ancora non lo sanno, agiscono come in preda a un raptus, non sanno che nome avrà, qualche tempo dopo, la grande costruzione che si apprestano a erigere per mezzo di veri e propri sacrifici umani. Non si rendono conto di essere come quegli Atzechi che hanno sterminato, nella parte sud dell’America. Fautori dell’orrore civilizzato (secoli più tardi, europei e americani daranno ancora grande prova di questa loro arte, nei campi di concentramento o a Hiroshima e Nagasaki).
Ed ecco allora il triangolo maledetto. Gli europei (inglesi, olandesi, francesi) si organizzano, si fanno finanziare, creano società, stipulano assicurazioni (l’orrore civilizzato!) e vanno con le loro navi in Africa, dove acquistano in cambio di merci e armi gli schiavi dalle tribù che nel frattempo li hanno catturati. Caricano gli schiavi, uomini, donne, bambini, nelle stive delle navi, come se fossero merci, come dei tronchi di legno, allineati uno di fianco all’altro, e partono per l’America. Là in molti li aspettano e pagheranno bene quella merce umana. Due o tre mesi in mare. Agli schiavi viene data solo poca acqua e poco cibo, quando ce n’è.
Considerando la vita (anche se si fa molta fatica a chiamarla ancora così) che li aspetta una volta arrivati a destinazione e assegnati al loro “padrone”, forse va meglio a quelli, e sono tanti, che muoiono durante la traversata. A quelli che l’America, terra di libertà e di sogni, non la vedono neanche.

Gli storici hanno calcolato che gli schiavi d’Africa giunti in America nei secoli XVIII e XIX siano stati circa 15 milioni. Ai quali vanno aggiunti quelli partiti e mai arrivati. Per far finire del tutto lo schiavismo ci vorrà un’altra guerra e un presidente che, non a caso, morirà assassinato.
Gli schiavi si chiamano così perché non sono liberi di andarsene quando e dove vogliono, hanno catene materiali o metaforiche, ma pur sempre catene. E perché il loro lavoro non viene pagato, se non con il cibo necessario alla loro stessa sopravvivenza.
Gli schiavi lavorano nelle case, ma soprattutto nei campi. Raccolgono il cotone e il tabacco. Con il cotone si fanno abiti che vengono venduti in tutta l’America e in Europa, generando un’enorme ricchezza. I profitti si fanno ancora maggiori con la rivoluzione industriale. Le prime macchine utilizzate nelle prime fabbriche sono quelle tessili. Dunque, la filiera (si direbbe oggi) del prodigio economico americano è questa: gli schiavi raccolgono il cotone a costo quasi zero, i poveri lavorano alle macchine tessili sfruttati fino a 15 ore al giorno (d’estate in cui c’è più luce), anche donne e bambini sopra i 10 anni di età. La vendita del cotone prodotto con manodopera così a buon mercato genera enormi profitti. Queste ingenti somme vengono accumulate e verranno successivamente reimpiegate, o date in prestito, per nuove attività industriali.

Questo enorme accumulo di denaro, ottenuto grazie allo schiavismo, allo sfruttamento del lavoro umano, alla depredazione di terre e risorse naturali che appartenevano ai popoli indigeni, è ciò che in epoca moderna va sotto il nome di “capitale”. E questo capitale, creato in origine in modo così ignominioso, continua ancora oggi a passare di mano, ad accrescersi ulteriormente con gli stessi mezzi, a generare altro capitale come per partenogenesi, a cambiare sembianze e nome, a determinare la vita e la morte delle persone, il loro benessere o la loro miseria, come un demone infuriato, un dio malvagio e inumano che non conosce il senso della giustizia e non teme nemici.

venerdì 12 aprile 2019

Frammenti di discorsi #6


Voce del verbo venire


– Non muoverti fino a che non vengo, – disse l’uomo.

– Devo sopportare questo peso addosso ancora per molto? – fece in risposta la donna.

– Devi darmi il tempo di venire, – ribadì lui. – Dammi il tempo di venire e tutto avrà fine.

– Mi sento opprimere, sul petto, sul ventre, sul bacino...

– Tu comunque non muoverti, hai capito? Stai ferma, resta immobile.

– È così importante che io non mi muova?

– Importantissimo. Non so come spiegartelo, quanto sia importante. Ferma, immobile, fino a che non vengo.

– Non ce la faccio più, mi sento morire...

– Ora non esagerare, hai ancora fiato in gola per parlare. Qualche minuto e tutto sarà finito. Solo pochi minuti e vengo.

– Fai presto.

– Non dipende da me.



L’uomo attaccò il telefono e prese a suonare il clacson all’impazzata. Il traffico era davvero paralizzato, a quell’ora della sera. La sua automobile si muoveva a passo di tartaruga e sua moglie giaceva sotto a un pesante armadio che le si era rovesciato addosso, immobilizzandola dalla vita in giù.


mercoledì 10 aprile 2019

Frammenti di discorsi



#1
Salvini e i nazisti
Mi fermo all’edicola del paese per fare acquisti. Poco più in là, un giovane di colore espone sul marciapiede manufatti di legno creati da lui.
è bravo, penso, e almeno non elemosina.
Un signore anziano, che staziona spesso a lungo davanti all’edicola scambiando chiacchiere con l’edicolante, sembra pensarla diversamente. Senza fare riferimenti diretti, guardando altrove, dice:
– Eh, lo so io cosa ci vorrebbe qui... Ci vorrebbe zio Adolf...
Zio Adolf? Capisco e lo guardo con aria di commiserazione.

#2
Femminismo
Durante la solita passeggiata sotto casa con il cane, incrocio una donna di mezza età, un poco sovrappeso, leggermente incanutita, che parla animatamente al cellulare.
– Non è stato educato, te l’ho detto, mamma. Cioè, ha ricevuto solo l’educazione da sua madre, non da un’altra donna. Un’educazione famigliare. Ma se è così, è perché gli è mancata quella esterna, l’educazione di una donna.
Ecco una donna da cui mi terrei bene alla larga, penso.

#3
Legittima difesa (putativa)
18 gennaio 1977: il calciatore della Lazio, Luciano Re Cecconi, entra con il compagno di squadra Ghedin e un altro amico in una gioielleria. Col bavero alzato e le mani in tasca, per fare uno scherzo, grida: “Fermi tutti, questa è una rapina!”. L’orefice estrae una pistola, Ghedin fa in tempo a tirare fuori le mani dalle tasche, Re Cecconi no. L’orefice spara e lo uccide sul colpo. Forse Salvini era troppo piccolo, allora, per ricordarsene oggi.



#5

15 dicembre 1974: Napoli-Juventus
Quando ero un ragazzino le partite di calcio si ascoltavano alla radio, la domenica pomeriggio soltanto. La nostra radio era un apparecchio a transistor che riproduceva la voce a bassa fedeltà delle onde medie. L’ascoltavamo, io e mio padre, seduti attorno a un tavolo, grattando con le dita il tessuto della tovaglia che vi era stesa sopra, quando il risultato ci innervosiva. E quella domenica di dicembre del 1974 i nostri nervi erano tesi, perché si giocava Napoli-Juventus. E mio padre tifava Napoli, la sua città, e io tifavo Juventus, anche se ero nato a Roma. In quel campionato le nostre due squadre si giocarono lo scudetto, testa a testa in alcune giornate, fino all’ultimo.
Mio padre era convinto che il Napoli avrebbe battuto la Juventus, perché aveva dalla sua il caloroso tifo del San Paolo. Invece segnò per prima la Juventus, con Altafini. Esultai, c’erano ancora tanti minuti di gioco per rimontare, dissi a mio padre. Ma poi, ecco un rigore per la Juventus: 2-0. E poi, prima del fischio, un altro goal: 3-0. Il ragazzino che ero non poteva essere più felice per il trionfo della sua squadra. Io però mi vergognavo di esserlo, perché avevo di fronte mio padre con la faccia degli sconfitti. Le notizie che arrivavano dagli altri campi dicevano che quasi tutti gli incontri si erano chiusi sullo 0-0 alla fine del primo tempo, e questo aggiungeva amarezza alla sonora sconfitta che la squadra di mio padre stava subendo. L’incontro riprese e non passò molto che la Juventus segnò un altro goal. Questo forse diede la sveglia ai giocatori del Napoli, che riuscirono a infilare il pallone alle spalle di Zoff: 4-1. La partita sarebbe anche potuta finire lì, concludersi in anticipo per risparmiare fatica ai giocatori. Ovviamente si giocò fino al novantesimo. Così, arrivò ancora un altro goal della Juventus, a cui fece seguito il riscatto del centravanti del Napoli, Clerici, con una doppietta: 5-2. A sei minuti dal termine, impietoso Viola violò ancora una volta il povero Carmignani, il portiere del Napoli: 6-2. Ormai non mi riusciva più di esultare, accoglievo ogni nuovo goal della mia squadra come un evento non previsto, e non voluto. A me sarebbe bastata una vittoria per 1-0, oppure no, un pareggio. Un classico 1-1 o un più divertente 2-2 o, meglio, 3-3, quelle partite in cui le squadre si rincorrono come due ragazze che giocano, finendo per non farsi del male. Invece era andata come era andata, e al fischio finale non riuscivo a trovare le parole per commentare. Restai muto, come il pubblico del San Paolo, composto in gran parte da tifosi del Napoli.
Alla fine quel campionato lo vinse la Juventus, ma con soli due punti di vantaggio sul Napoli, che sperò fino all’ultima giornata nella eventualità di uno spareggio.